È davvero meravigliosa la lotta che l'umanità combatte da tempo immemorabile; lotta incessante, con cui essa tenta di strappare e lacerare tutti i vincoli che la libidine di dominio di un solo, di una classe, o anche di un intero popolo, tentano di imporle. È questa una epopea che ha avuto innumerevoli eroi ed è stata scritta dagli storici di tutto il mondo. L'uomo, che ad un certo tempo si sente forte, con la coscienza della propria responsabilità e del proprio valore, non vuole che alcun altro gli imponga la sua volontà e pretenda di controllare le sue azioni e il suo pensiero. Perché pare che sia un crudele destino per gli umani, questo istinto che li domina di volersi divorare l'un l'altro, invece di convergere le forze unite per lottare contro la natura e renderla sempre piú utile ai bisogni degli uomini. Invece, un popolo quando si sente forte e agguerrito, subito pensa a aggredire i suoi vicini, per cacciarli ed opprimerli. Perché è chiaro che ogni vincitore vuol distruggere il vinto. Ma l'uomo che per natura è ipocrito e finto, non dice già «io voglio conquistare per distruggere», ma, «io voglio conquistare per incivilire». E tutti gli altri, che lo invidiano, ma aspettano la loro volta per fare lo stesso, fingono di crederci e lodano.
Cosí abbiamo avuto che la civiltà ha tardato di piú ad espandersi e a progredire; abbiamo avuto che razze di uomini, nobili e intelligenti, sono state distrutte o sono in via di spegnersi. L'acquavite e l'oppio che i maestri di civiltà distribuivano loro abbondantemente, hanno compiuto la loro opera deleteria.
Poi un giorno si sparge la voce: uno studente ha ammazzato il governatore inglese delle Indie, oppure: gli italiani sono stati battuti a Dogali, oppure: i boxers hanno sterminato i missionari europei; e allora la vecchia Europa inorridita impreca contro i barbari, contro gli incivili, e una nuova crociata viene bandita contro quei popoli infelici.
E badate: i popoli europei hanno avuto i loro oppressori e hanno combattuto lotte sanguinose per liberarsene, ed ora innalzano statue e ricordi marmorei ai loro liberatori, ai loro eroi, e innalzano a religione nazionale il culto dei morti per la patria. Ma non andate a dire agli italiani, che gli austriaci erano venuti per portarci la civiltà: anche le colonne marmoree protesterebbero. Noi, sí, siamo andati per portare la civiltà ed infatti ora quei popoli ci sono affezionati e ringraziano il cielo della loro fortuna. Ma si sa; sic vos non vobis. La verità invece consiste in una brama insaziabile che tutti hanno di smungere i loro simili, di strappare loro quel po' che hanno potuto risparmiare con privazioni. Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà: gli inglesi hanno bombardato non so quante città della Cina perché i cinesi non volevano sapere del loro oppio. Altro che civiltà! E russi e giapponesi si sono massacrati per avere il commercio della Corea e della Manciuria. Si delapidano le sostanze dei soggetti, si toglie loro ogni personalità; non basta però ai moderni civilissimi: i romani si accontentavano di legare i vinti al loro carro trionfale, ma poi riducevano a provincia la terra conquistata: ora invece si vorrebbe che tutti gli abitanti delle colonie sparissero per lasciar largo ai nuovi venuti.
Se poi una voce di onesto uomo si leva a rimproverare queste prepotenze, questi abusi, che la morale sociale e la civiltà sanamente intesa dovrebbero impedire, gli si ride in faccia; perché è un ingenuo, e non sa tutti i machiavellici cavilli che reggono la vita politica. Noi italiani adoriamo Garibaldi; fin da piccoli ci hanno insegnato ad ammirarlo, il Carducci ci ha entusiasmato con la sua leggenda garibaldina: se si domandasse ai fanciulli italiani chi vorrebbero essere, la gran maggioranza certo sceglierebbe di essere il biondo eroe. Mi ricordo che a una dimostrazione per una commemorazione dell'indipendenza, un compagno mi disse: ma perché tutti gridano: «viva Garibaldi! e nessuno: viva il re?» ed io non seppi darne una spiegazione. Insomma, in Italia dai rossi ai verdi, ai gialli idolatrano Garibaldi, ma nessuno veramente ne sa apprezzare le alte idealità; e quando i marinai italiani sono mandati a Creta per abbassare la bandiera greca innalzata dagli
insorti e rimettere la bandiera turca, nessuno levò un grido di protesta. Già: la colpa era dei candioti che volevano turbare l'equilibrio europeo. E nessuno degli italiani che in quello stesso giorno forse acclamavano l'eroe liberatore della Sicilia, pensò che Garibaldi se fosse stato vivo, avrebbe sostenuto anche l'urto di tutte le potenze europee, pur di fare acquistare la libertà a un popolo. E poi si protesta se qualcuno viene a dirci che siamo un popolo di rètori!
E chi sa per quanto tempo ancora durerà questo contrasto. Il Carducci si domandava: «Quando il lavoro sarà lieto? Quando sicuro sarà l'amore?». Ma ancora si aspetta una risposta, e chi sa chi saprà darla. Molti dicono che ormai l'uomo tutto ciò che doveva conquistare nella libertà, e nella civiltà, l'abbia già fatto, e che ormai non gli resta che godere il frutto delle sue lotte. Invece, io credo che ben altro da fare ci sia ancora: gli uomini non sono che verniciati di civiltà; ma se appena sono scalfiti, subito appare la pellaccia del lupo. Gli istinti sono ammansati, ma non distrutti, e il diritto del piú forte è il solo riconosciuto. La Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe ad un'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate. L'umanità ha bisogno d'un altro lavacro di sangue per cancellare molte di queste ingiustizie: che i dominanti non si pentano allora d'aver lasciato le folle in uno stato di ignoranza e di ferocia quali sono adesso!
[1] Saggio scolastico, manoscritto, probabilmente del novembre 1910, quando G. frequentava l'ultima classe del liceo Dettori di Cagliari.
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[1] Alludeva a II discorso su Roma, letto da Papini nel corso di una tumultuosa manifestazione futurista al teatro Costanzi di Roma il 21 febbraio 1913 (cfr. "Lacerba", anno I, n. 5, i° marzo 1913; ora in "Lacerba" - "La Voce" (1914-1916), a cura di Gianni Scalia, Einaudi, Torino 1962, pp. 139-48).
[2] Si trattava degli scritti lacerbiani in difesa del movimento futurista, poi raccolti in G. Papini, L'esperienza futurista (1913-1914), Vallecchi, Firenze 1914.
[3] Si riferiva quasi certamente agli articoli di Giuseppe Prezzolini, Futurismo vecchio e nuovo, in "La Stampa", 4 aprile 1913, e Alcune idee chiare intorno al futurismo, in "La Voce", anno v, n. 15, 10 aprile 1913, e all'articolo di G. S. Gargano, Poesia futurista, in "Il Marzocco", anno xvni, n. 18, 4 maggio 1913.
[4] II Manifesto tecnico della letteratura futurista, pubblicato l'n maggio 1912 in foglio volante, e il supplemento al medesimo dell'n agosto dello stesso anno (ora in Per conoscere Marinetti e il futurismo, a cura di L. De Maria, Mondadori, Milano 1973, pp. 77-91).
[5] F. T. Marinetti, Adrianopoli assedio orchestra, in "Lacerba", anno 1, n. 6, 15 marzo 1913 (ora in "Lacerba" - "La Voce" (1914-1916) cit., pp. 149-54).
[6] In occasione della rappresentazione del Mantellaccio (1911), Ettore Cozzani aveva pubblicato nel " Giornale d'Italia " un saggio sull'endecasillabo benelliano come "verso sofferto".
[7] Si riferiva alla rivista "San Giorgio. Giornale dei nuovi romantici", pubblicata a Bologna dal i° dicembre 1912 al 15 luglio 1913 e diretta da Timoteo Solaroli (sostituito con l'ultimo numero da Eugenio Giovannetti); fra i collaboratori: Domenico Giuliotti, Ferdinando Paolieri, Federigo Tozzi. Un attacco della rivista ai futuristi era apparso nel n. 5-6, 15-28 febbraio 1913: Futurismo becero, a firma "Criticus".
[8]Per i diversi giudizi dati da Gramsci sul movimento futurista, cfr. i successivi articoli Cavour e Marinetti (vol. II), Marinetti rivoluzionario?, in «L'Ordine Nuovo», 5 gennaio 1921 (SF, 20-22) e la lettera sul futurismo pubblicata da Trockij in appendice al suo libro Literatura i revoljucija, Izdatel'stvo «Krasnaja nov'», Glavpolitprosvet, Moskva 1923, pp. 116-18 (trad. it. Letteratura e rivoluzione, introduzione di V. Strada, Einaudi, Torino 1973, pp. 141-43; e SF, 527-28); cfr. anche Q, 1,115.
Pur nella straordinaria confusione che la presente crisi europea ha creato nelle coscienze e nei partiti, tutti sono d’accordo su di un punto: il presente momento storico è di una indicibile gravità, le sue conseguenze possono essere gravissime, e perché tanto sangue si è versato e tante energie sono andate distrutte, facciamo in modo che il maggior numero possibile di questioni che il passato ha lasciato insolute venga risolto, e l’umanità possa ripigliare la sua strada senza che ancora tanto grigiume di tristezze e di ingiustizie le intralci la via, senza che il suo avvenire possa essere a breve scadenza attraversato da un’altra di queste catastrofi che richieda di nuovo un altro, come questo, formidabile dispendio di vita e di attività.
E noi, socialisti italiani, ci proponiamo il problema: «Quale dev’essere la funzione del Partito socialista italiano (si badi, e non del proletariato o del socialismo in genere) nel presente momento della vita italiana?».
Perché il Partito socialista a cui noi diamo la nostra attività è anche italiano, cioè è quella sezione dell’Internazionale socialista che si è assunto il compito di conquistare all’Internazionale la nazione italiana. Questo suo compito immediato, sempre attuale gli conferisce dei caratteri speciali, nazionali,che lo costringono ad assumere nella vita italiana una sua funzione specifica, una sua responsabilità. È uno Stato in potenza, che va maturando, antagonista dello Stato borghese, che cerca, nella lotta diuturna con quest’ultimo e nello sviluppo della sua dialettica interiore, di crearsi gli organi per superarlo ed assorbirlo. E nello svolgimento di questa sua funzione è autonomo, non dipendendo dall’Internazionale se non per il fine supremo da raggiungere e per il carattere che questa lotta deve sempre presentare di lotta di classe.
Del modo con cui questa lotta deve affermarsi nelle varie contingenze e del momento in cui deve culminare nella rivoluzione è solo giudice competente il Psi che ne vive e solo ne conosce il vario atteggiarsi.
Solo cosi possiamo legittimare il riso e il disprezzo con cui da noi furono accolti gli improperi di G. Hervé[1] e i tentativi d’approccio dei socialisti tedeschi l’uno e gli altri parlanti a nome dell’Internazionale di cui si riputavano interpreti autorizzati, quando il Psi bandi la formula della «neutralità assoluta»[2].
Le due neutralità
Perché, si badi, non è sul concetto di neutralità che si discute (neutralità, beninteso, del proletariato), ma sul modo di questa neutralità.
La formula della «neutralità assoluta» fu utilissima nel primo momento della crisi, quando gli avvenimenti ci colsero all’improwiso relativamente impreparati alla loro grandiosità, perché solo l’affermazione dogmaticamente intransigente, tagliente, poteva farci opporre un baluardo compatto, inespugnabile al primo dilagare delle passioni, degli interessi particolari. Ora che dalla iniziale situazione caotica sono precipitati gli elementi di confusione e ciascuno deve assumere le proprie responsabilità essa ha solo valore per i riformisti, che dicono di non voler giocare terni secchi (ma lasciano che gli altri li giochino e li guadagnino) e vorrebbero che il proletariato assistes-. se da spettatore imparziale agli avvenimenti, lasciando che questi gli creino la sua ora, mentre intanto gli avversari la loro ora se la creano da sé e preparano loro la piattaforma per la lotta di classe. Ma i rivoluzionari che concepiscono la storia come creazione del proprio spirito, fatta di una serie ininterrotta di strappi operati sulle altre forze attive e passive della società, e preparano il massimo di condizioni favorevoli per lo strappo definitivo (la rivoluzione) non devono accontentarsi della formula provvisoria «neutralità assoluta», ma devono trasformarla nell’altra «neutralità attiva e operante». Il che vuol dire ridare alla vita della nazione il suo genuino e schietto carattere di lotta di classe, in quanto la classe lavoratrice, obbligando la classe detentrice del potere ad assumere le sue responsabilità obbligandola a portare fino all’assoluto le premesse da cui trae la sua ragione di esistere, a subire l’esame della preparazione con cui ha cercato di arrivare al fine che diceva esserle proprio, la obbliga (nel caso nostro, in Italia) a riconoscere che essa ha completamente fallito al suo scopo, poiché ha condotto la nazione, di cui si proclamava unica rappresentante, in un vicolo cieco, da cui essa nazione non potrà uscire se non abbandonando al proprio destino tutti quegli istituti che del presente suo tristissimo stato sono direttamente responsabili.
Solo cosi sarà ristabilito il dualismo delle classi, il Partito socialista si libererà da tutte le incrostazioni borghesi che la paura della guerra gli ha appiccicato addosso (mai come in questi ultimi due mesi il socialismo ha avuto tanti simpatizzanti più o meno interessati) e, avendo fatto toccar con mano al paese (che in Italia non è tutto né proletario né borghese, dato il poco interesse che la gran massa del popolo ha sempre dimostrato per la lotta politica, e quindi è tanto più facilmente conquistabile da chi sappia dimostrare energie e visione netta dei propri destini) come quelli che si dicevano i suoi mandatari si sono mostrati incapaci di una qualsiasi azione, [potrà] preparare il proletariato a sostituirla, prepararlo ad operare quel massimo strappo che segna il traboccare della civiltà da una forma imperfetta in un’altra più perfetta.
Il caso Mussolini
Più cauto perciò, mi pare, avrebbe dovuto essere a.t. che sul cosiddetto caso Mussolini ha scritto nel passato numero del Grido[3]. Avrebbe egli dovuto distinguere tra ciò che, nelle dichiarazioni del direttore dell’Avariti! era dovuto a Mussolini uomo, romagnolo (anche di ciò si è parlato), e ciò che era di Mussolini socialista italiano, prendere insomma ciò che di vitale poteva esserci nel suo atteggiamento e su quello rivolgere la propria critica, annientandolo, ovvero trovandoci il piano di conciliazione tra il formalismo dottrinario della rimanente Direzione del partito e il concretismo realistico del direttore dell’Avanti!
Il mito della guerra
Ma errato mi pare il nucleo centrale dell’articolo di a. t. Quando Mussolini dice alla borghesia italiana: «Andate dove i vostri destini vi chiamano», cioè: «Se voi ritenete che sia vostro dovere fare la guerra all’Austria, il proletariato non saboterà la vostra azione», non rinnega affatto il suo atteggiamento di fronte alla guerra libica che ha avuto come risultato quello che a. t. chiama «il mito negativo della guerra». In quanto si parla di «vostri destini» si lascia intendere quei destini che per la funzione storica della borghesia culminano nella guerra, e questa mantiene quindi più intensa ancora, dopo l’acquistatane coscienza del proletariato, il suo carattere di antitesi irriducibile coi destini del proletariato. Non un abbracciamento generale vuole quindi il Mussolini, non una fusione di tutti i partiti in un’unanimità nazionale, che allora la sua posizione sarebbe antisocialista. Egli vorrebbe che il proletariato, avendo acquistato una chiara coscienza della sua forza di classe e della sua potenzialità rivoluzionaria, e riconoscendo per il momento la propria immaturità ad assumere il timone dello Stato (a fare la [...][4] una disciplina ideale, e permettesse che nella storia fossero lasciate operare quelle forze che il proletariato, non sentendosi di sostituire, ritiene più forti. E il sabotare una macchina (che ad un vero sabotaggio si riduce la neutralità assoluta, sabotaggio accettato del resto entusiasticamente dalla classe dirigente) non vuol certo dire che quella macchina non sia perfetta e non sia utile a qualche cosa.
Né la posizione mussoliniana esclude (che anzi lo presuppone) che il proletariato rinunzi al suo atteggiamento antagonistico, e possa, dopo un fallimento o una dimostrata impotenza della classe dirigente, sbarazzarsi di questa e impadronirsi delle cose pubbliche, se, almeno, io ho interpretato bene le sue un po’ disorganiche dichiarazioni, e le ho sviluppate secondo quella stessa linea che egli avrebbe fatto.Che cosa dirà il proletariato?
Io non so immaginare un proletariato che sia come un meccanismo al quale nel mese di luglio sia stata data la corda con la chiavetta della neutralità assoluta e che non possa essere nel mese di ottobre fermato senza che abbia a spezzarsi.
Si tratta di uomini, invece, che hanno dimostrato, specialmente in questi ultimi anni, di possedere un’agilità di intelletto e una freschezza di sensibilità quale la massa borghese amorfa e menefreghista è ben lontana dal solamente fiutare. Di una massa che ha mostrato di sapere molto bene assimilare e rivivere i nuovi valori che il rinato Partito Socialista ha messo in circolazione. O che forse ci spaventiamo del lavoro che bisognerebbe fare per fargli assumere questo nuovo compito, che forse potrebbe essere per lui il principio della fine del suo stato di pupillo della borghesia?
In tutti i casi la comoda posizione della neutralità assoluta non ci faccia dimenticare la gravità del momento, e non faccia che noi ci abbandoniamo neppure per un istante ad una troppo ingenua contemplazione e rinunzia buddistica dei nostri diritti.
[1] Gustave Hervé (1871-1944), antimilitarista convertito poi alle ragioni della guerra
[2] Si riferisce alla richiesta di «neutralità assoluta» avanzata al governo italiano, nel luglio 1914, dalla direzione del partito e dal gruppo parlamentare socialista
[3] Sul Grido del Popolo del 24 ottobre 1914, a. t. (Angelo Tasca) aveva pubblicato l’articolo Il mito della guerra, nel quale polemizzava con l’editoriale di Benito Mussolini, Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante, apparso sull’Avanti! del 18 ottobre. Secondo Mussolini, che il 24 novembre di quell’anno sarebbe stato espulso dal Psi, i socialisti italiani da «spettatori inerti» dovevano trasformarsi in «protagonisti» del «dramma grandioso» del conflitto bellico.
[4] Una riga mancante nel testo dell’articolo
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Polemica di Tasca con Mussolini, Dalla neutralità assoluta alla neutralità relativa ed operante, pubblicato in «Avanti!», 18 ottobre 1914, dove Mussolini paventa la possibile partecipazione del proletariato alla guerra. Tasca scrive l’articolo Il mito della guerra, in «Il Grido del Popolo», 24 ottobre 1914, il proletariato non sente la capacità di dominare gli avvenimenti.
- Il problema concreto:
c’è una guerra, non sprechiamo le energie e risolviamo il maggior numero di questioni possibile. Il partito ha un carattere nazionale con cui deve fare i conti, deve dunque capire la sua funzione e responsabilità. La decisione del modo e momento della Rivoluzione in Italia è competenza unicamente del psi.
- Le due neutralità
Non si discute sul concreto, ma sul modo di questa neutralità. Nel primo momento di confusione era comprensibile, ma ora l’attesisimo è solo dei riformisti, il momento è chiaro: loro vogliono gli operai attendano la propria ora, mentre gli altri la propria ora se la creano da soli. I rivoluzionari dovrebbero operare la lotta di classe obbligando la classe dominante ad assumersi la responsabilità delle proprie decisioni: dove ha condotto la nazione (la guerra). Siccome la classe dominante è incapace, bisogna preparare il proletariato a sostituirla, prepararlo al massimo strappo (i rivoluzionari non vogliono una piccola serie di piccoli strappi, ma la preparazione all’ultimo grande strappo).
- Il caso Mussolini
Critica a Tasca, nella polemica a Mussolini: avrebbe dovuto criticare la sintesi tra formalismo dottrinario del partito ed il suo personale concretismo realistico.
- Il mito della guerra
«Andate dove i vostri destini vi chiamano»: se la classe dominante ritiene la propria azione culmini nella guerra, renderlo vuoto e palese perché da lì sarà nota l’antitesi dei destini tra classe dominante e proletariato. Non una fusione dei partiti in un’unanimità nazionale, bensì il proletariato deve riconsocere la propria inadeguatezza, immaturità e che siano lasciate operare le forze che il proletariato non sente di poter ancora sostituire.
- Che cosa dirà il proletariato
Nuovi valori del psi dopo il Congresso di Reggio Emilia del 1912, la neutralità assoluta non deve essere una comoda posizione su cui arroccarsi, e non dobbiamo abdicare con contemplazione e rinunciare ai nostri diritti.
]]>Anche in questo nuovo volumetto[6] Mario Missiroli ricade nelle stesse deficienze e negli stessi errori che erano stati rimproverati ad un suo precedente lavoro, La monarchia socialista: concezione semplicista, esposizione troppo sommaria e che avrebbe bisogno di essere particolareggiata e documentata per avere una qualche efficacia persuasiva. Veramente l'autore mette le mani avanti scrivendo in un'avvertenza preliminare: «Non dimentichi il lettore che io prescindo da tutto ciò che non sia la pura logica delle idee», ma con ciò non rende minore la sua sufficienza. Di questa logica delle idee egli si serve per spiegare fatti storici, per giustificarli o condannarli implicitamente, per tracciare programmi politici, e tutto ciò non si può fare senza sentire la necessità, e in un certo senso il dovere morale, di documentare le proprie elucubrazioni. Trattare come problema di cultura, astrattamente, una questione che ha profonde radici nella storia e nelle coscienze individuali, è dilettantismo, è bizantinismo, e non basta la vivacità dell'ingegno, che può rendere piacevole anche la chiacchiera piú vacua, a giustificare questa letteratura in cui si sono specializzati precisamente il Missiroli e Goffredo Bellonci.
Il Missiroli riduce la storia che si sta svolgendo sotto ai nostri occhi ad un solo problema: quello religioso, e sostiene questa tesi: nel mondo latino esiste una terribile scissione nelle coscienze individuali; la creazione dello Stato laico sorto in opposizione all'autorità ecclesiastica ha gettato l'Europa meridionale in una crisi dalla quale non può salvarla che una forma sociale piú perfetta: la teocrazia, intesa come perfetta unità del pensiero e della coscienza nella vita. Questa unità esiste nel mondo germanico. La nazione germanica è sorta da una crisi religiosa, la Riforma protestante, e si è consolidata e rafforzata attraverso un lavorío del pensiero filosofico che l'ha portata alla creazione dello Stato moderno, in cui il cittadino è anche il credente, poiché l'idealismo filosofico, abolendo ogni dualismo e ponendo nella coscienza individuale il fattore della conoscenza e dell'attività creatrice della storia, lo ha reso indipendente da ogni autorità, da ogni Sillabo. Cosa è avvenuto invece in Italia? Il Risorgimento italiano è stato un movimento politico artificiale, senza basi, senza radici nello spirito del popolo, perché non è stato preceduto da una rivoluzione religiosa; il liberalismo cavouriano, separando lo Stato dalla Chiesa, e rendendolo antagonistico a questa come depositaria del divino, in realtà non commise che un grande errore, poiché non fece che spogliare lo Stato del suo valore assoluto. Un simile errore commise la democrazia francese, poiché accettò in parte i postulati dell'idealismo germanico, abolendo violentemente il diritto divino e il legittimismo, ma non riuscí a spogliarsi completamente del vecchio dualismo cattolico, e creò un Sillabo massonico: la giustizia assoluta superiore alle contingenze storiche e alle forze umane perverse, non creazione, insomma, volta a volta della volontà, ma a sé stante su un trono come l'Iddio dei cattolici. Ecco perché, secondo il Missiroli, il papa in realtà in questa guerra parteggia per l'Intesa; perché in essa trova concezioni simili alle sue, che hanno una stessa sorgente (semitica, direbbero i nazionalisti) nella vecchia tradizione cristiana; il papa può trovarsi d'accordo coi massoni, ma non coi tedeschi. Nei massoni c'è la possibilità di assorbimento, perché essi non hanno sostituito nulla, se non dei nomi vani, al cattolicismo; nei tedeschi c'è invece la saldezza granitica, inattaccabile, della coscienza dell'identità del divino e dell'umano, dell'idea e dell'atto, dello spirito e della storia. Hegel ha ucciso ogni possibilità di Sillabo, ciò che non ha fatto Rousseau, e dall'idealismo germanico sono germinate e hanno sciamato tutte le concezioni anarchiste, che hanno creato il caos nella limpida tradizione cattolica della latinità.
Sarebbe troppo lungo e non adatto al carattere del Grido, il discutere e rilevare tutti gli errori in cui vaneggia la facile dialettica del Missiroli. Importa rilevare solo questo fatto: l'unica conclusione a cui si può arrivare dalle premesse dello scrittore è che il cattolicismo è matematicamente destinato a scomparire. Se è vero, e per tale l'accetta il Missiroli, lo sviluppo storico affermato da Hegel, per il quale dal cattolicismo si passa al luteranesimo, da questo al libero esame della scuola di Tubinga, e quindi alla filosofia pura che riesce finalmente ad occupare tutto il posto che le spetta nella coscienza umana, scacciandone il buon vecchio dio, che rientra nel regno delle larve, perché questo processo dovrà limitarsi alla sola Germania? Il turbamento che esisterebbe nelle coscienze latine, non potrebbe essere uno stadio intermedio tra il trascendentalismo cattolico e massonico e l'immanentismo idealistico? Se una cosa questa guerra ha ammazzato davvero, è la vecchia concezione della giustizia assoluta, che si impone da sé e non ha bisogno di cannoni o di baionette per sostenersi. Anche se la Germania sarà vinta, non lo sarà prima di aver imposto agli avversari la sua concezione dello Stato, della giustizia, della forza, o quella che piú le si avvicini per mantenere l'equilibrio.
Chi escirà sconfitto effettivamente dalla guerra sarà il cattolicismo e il Sillabo, come lo intende il Missiroli.
Questo astrarsi dalla storia, questo voler conservare il proprio pensiero al disopra dei fatti, delle correnti sociali che si agitano e rinnovano continuamente la società, al Missiroli sembrano una prova di forza, di austerità morale ammirevole e di superiorità intellettuale. E invece sono l'intima debolezza del Papato. Mentre tutto si rinnova e rinasce, il Papato taglia uno ad uno i legami che potrebbero ancora farne una forza attiva nella storia. Il Missiroli vede due sole religioni: il trascendentalismo cattolico e l'immanentismo idealistico derivato dalla Riforma, in verità, ogni uomo ha una sua religione, ha una sua fede che riempie la sua vita e la rende degna di essere vissuta.
Non invano Hegel è vissuto ed ha scritto. Come non si nega e non si supera il cattolicismo ignorandolo, cosí non si supera e non si nega l'idealismo ignorandolo, o trattandolo come una semplice questione di cultura.
Le questioni di cultura non sono semplici giuochi di idee da risolversi astrattamente dalla realtà. L'ufficio di postillatore delle encicliche papali, in questo momento di incoscienza e di politicantismo religioso, può dare delle superbe soddisfazioni intellettuali per il senso che ne viene del proprio isolamento, della propria compenetrazione in un problema che gli altri non sentono e neppure intraveggono, ma non cava un ragno dal buco. Si risolve in un elegante dilettantismo filosofico che non è meno peggio e piú serio dell'ignoranza e dell'incomprensione. Il Missiroli è stato punito nel suo stesso peccato: il suo volumetto è diventato per alcuni una riprova dell'attività cattolica e del Papato che ritorna in voga; mentre se in voga ritorna qualcuno è il solo Mario Missiroli, il vero papa del suo cattolicismo, il maestro infallibile di un credo che non potrà aver mai dei credenti perché ormai diventato extrastorico, giuoco di pazienza di un acuto sí, ma non perciò meno inconcludente amplificatore di aforismi e affermazioni che la storia ha superato. Nella lotta fra il Sillabo e Hegel, è Hegel che ha vinto, perché Hegel è la vita del pensiero che non conosce limiti e pone se stesso come qualcosa di transeunte, di superabile, di sempre rinnovantesi come e secondo la storia, e il Sillabo è la barriera, è la morte della vita interiore, è un problema di cultura e non un fatto storico.
[5] Firmato ALFA GAMMA, Il Grido del Popolo, 15 gennaio 1916, sotto la rubrica «Attualità libraria».
[6] Il Papa in guerra, Bologna, 1915.
]]>Ci è capitato sott'occhi, qualche tempo fa, un articolo nel quale Enrico Leone, con quella forma involuta e nebulosa che troppo spesso gli è propria, ripeteva alcuni luoghi comuni sulla cultura e l'intellettualismo in rapporto al proletariato, opponendogli la pratica, il fatto storico per i quali la classe sta preparandosi con le sue stesse mani l'avvenire. Non crediamo inutile ritornare sull'argomento, trattato altre volte sul Grido e che ebbe specialmente nell'Avanguardia dei giovani una trattazione piú rigidamente dottrinale nella polemica tra il Bordiga di Napoli e il nostro Tasca.
Ricordiamo due brani: uno di un romantico tedesco, il Novalis (vissuto dal 1772 al 1801) che dice: «Il supremo problema della cultura è di impadronirsi del proprio io trascendentale, di essere nello stesso tempo l'io del proprio io. Perciò sorprende poco la mancanza di senso ed intelligenza completa degli altri. Senza una perfetta comprensione di noi, non si potranno veramente conoscere gli altri».
L'altro, che riassumiamo, di G. B. Vico. Il Vico (nel 1° Corollario intorno al parlare per caratteri poetici delle prime nazioni nella Scienza nuova) dà una interpretazione politica del famoso detto di Solone, che poi Socrate fece suo quanto alla filosofia: «Conosci te stesso», sostenendo che Solone volle con quel detto ammonire i plebei, che credevano se stessi d'origine bestiale e i nobili di divina origine, a riflettere su se stessi per riconoscersi d'ugual natura umana co' nobili, e per conseguenza a pretendere di essere con quelli uguagliati in civil diritto. E pone poi in questa coscienza dell'uguaglianza umana tra plebei e nobili, la base e la ragione storica del sorgere delle repubbliche democratiche nell'antichità.
Non abbiamo cosí a vanvera accostato i due frammenti. In essi ci pare siano adombrati, se non diffusamente espressi e definiti, i limiti e i principi sui quali deve fondarsi una giusta comprensione del concetto di cultura anche in rapporto al socialismo.
Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico, in cui l'uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivare di dati empirici; di fatti bruti e sconnessi che egli poi dovrà casellare nel suo cervello come nelle colonne di un dizionario per poter poi in ogni occasione rispondere ai vari stimoli del mondo esterno. Questa forma di cultura è veramente dannosa specialmente per il proletariato. Serve solo a creare degli spostati, della gente che crede di essere superiore al resto dell'umanità perché ha ammassato nella memoria una certa quantità di dati e di date, che snocciola ad ogni occasione per farne quasi una barriera fra sé e gli altri. Serve a creare quel certo intellettualismo bolso e incolore, cosí bene fustigato a sangue da Romain Rolland, che ha partorito tutta una caterva di presuntuosi e di vaneggiatori, piú deleteri per la vita sociale di quanto siano i microbi della tubercolosi o della sifilide per la bellezza e la sanità fisica dei corpi. Lo studentucolo che sa un po' di latino e di storia, l'avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio specializzato che adempie nella vita ad un compito ben preciso e indispensabile e che nella sua attività vale cento volte di piú di quanto gli altri valgano nella loro. Ma questa non è cultura, è pedanteria, non è intelligenza, ma intelletto, e contro di essa ben a ragione si reagisce.
La cultura è una cosa ben diversa. È organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri. Ma tutto ciò non può avvenire per evoluzione spontanea, per azioni e reazioni indipendenti dalla propria volontà, come avviene nella natura vegetale e animale in cui ogni singolo si seleziona e specifica i propri organi inconsciamente, per legge fatale delle cose. L'uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura. Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non si sia ancora
realizzato il socialismo. Gli è che solo a grado a grado, a strato a strato, l'umanità ha acquistato coscienza del proprio valore e si è conquistato il diritto di vivere indipendentemente dagli schemi e dai diritti di minoranze storicamente affermatesi prima. E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convertirli da occasione di vassallaggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale. Ciò vuol dire che ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per se stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovavano nelle stesse condizioni. L'ultimo esempio, il piú vicino a noi e perciò meno diverso dal nostro, è quello della Rivoluzione francese. Il periodo anteriore culturale, detto dell'illuminismo, tanto diffamato dai facili critici della ragione teoretica, non fu affatto, o almeno non fu completamente quello sfarfallio di superficiali intelligenze enciclopediche che discorrevano di tutto e di tutti con pari imperturbabilità, che credevano di essere uomini del loro tempo solo dopo aver letto la Grande enciclopedia di D'Alembert e Diderot, non fu insomma solo un fenomeno di intellettualismo pedantesco ed arido, simile a quello che vediamo dinanzi ai nostri occhi, e che trova la sua maggiore esplicazione nelle Università popolari di infimo ordine. Fu una magnifica rivoluzione esso stesso, per la quale, come nota acutamente il De Sanctis nella Storia della letteratura italiana, si era formata in tutta l'Europa come una coscienza unitaria, una internazionale spirituale borghese sensibile in ogni sua parte ai dolori e alle disgrazie comuni e che era la preparazione migliore per la rivolta sanguinosa poi verificatasi nella Francia.
In Italia, in Francia, in Germania si discutevano le stesse cose, le stesse istituzioni, gli stessi principi. Ogni nuova commedia di Voltaire, ogni nuovo pamphlet era come la scintilla che passava per i fili già tesi fra Stato e Stato, fra regione e regione, e trovava gli stessi consenzienti e gli stessi oppositori da per tutto e contemporaneamente. Le baionette degli eserciti di Napoleone trovavano la via già spianata da un esercito invisibile di libri, di opuscoli, che erano sciamati da Parigi fin dalla prima metà del secolo XVIII e che avevano preparato uomini e istituzioni alla rinnovazione necessaria. Piú tardi, quando i fatti di Francia ebbero rinsaldate le coscienze, bastava un moto popolare a Parigi per suscitarne altri simili a Milano, a Vienna e nei piú piccoli centri. Tutto ciò sembra naturale, spontaneo ai faciloni, e invece sarebbe incomprensibile se non si conoscessero i fattori di cultura che contribuirono a creare quegli stati d'animo pronti alle esplosioni per una causa che si credeva comune.
Lo stesso fenomeno si ripete oggi per il socialismo. È attraverso la critica della civiltà capitalistica che si è formata o si sta formando la coscienza unitaria del proletariato, e critica vuol dire cultura, e non già evoluzione spontanea e naturalistica. Critica vuol dire appunto quella coscienza dell'io che Novalis dava come fine alla cultura. Io che si oppone agli altri, che si differenzia e, essendosi creata una meta, giudica i fatti e gli avvenimenti oltre che in sé e per sé anche come valori di propulsione o di repulsione. Conoscere se stessi vuol dire essere se stessi, vuol dire essere padroni di se stessi, distinguersi, uscire fuori dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale. E non si può ottenere ciò se non si conoscono anche gli altri, la loro storia, il susseguirsi degli sforzi che essi hanno fatto per essere ciò che sono, per creare la civiltà che hanno creato e alla quale noi vogliamo sostituire la nostra. Vuol dire avere nozioni di cosa è la natura e le sue leggi per conoscere le leggi che governano lo spirito. E tutto imparare senza perdere di vista lo scopo ultimo che è di meglio conoscere se stessi attraverso gli altri e gli altri attraverso se stessi.
Se è vero che la storia universale è una catena degli sforzi che l'uomo ha fatto per liberarsi e dai privilegi e dai pregiudizi e dalle idolatrie, non si capisce perché il proletariato, che un altro anello vuol aggiungere a quella catena, non debba sapere come e perché e da chi sia stato preceduto, e quale giovamento possa trarre da questo sapere.
[8] Firmato ALFA GAMMA, Il Grido del Popolo, 29 gennaio 1916.
]]>Un foltissimo pubblico assisteva ieri mattina, nel vasto salone dell'Ambrosio, alla commemorazione che dell'eroica Miss Cavell fece Luigi di San Giusto.
Commemorazione sobria nel contenuto, quantunque un po' troppo prolissa nella forma esteriore, letterariamente convenzionale e banale. Ci pare però che all'oratrice sia sfuggito il punto centrale del dramma spirituale dell'infermiera inglese, dramma suo intimo, tanto piú interessante dell'esteriore dramma inscenato dalla sbrigativa e rigidamente feroce giustizia militare tedesca. Di questa donna che dopo aver apertamente, francamente confessata e aggravata la sua colpa, dirittamente giustificandola col suo patriottismo, sul punto di essere condotta al supplizio, dichiara al suo confessore: «Ora che mi trovo sola dinanzi a Dio e all'eternità, mi accorgo che nella vita il patriottismo non è tutto». Per la di San Giusto questo particolare diviene un puro e semplice fatto di cronaca, senza importanza e perciò non meritevole di sviluppo. Per noi è, in tutto questo orrendo episodio della fredda logica militaresca, punto culminante e suggestivo in sommo grado. Ma non bisogna domandare agli uomini e alle donne di letteratura, specialmente, piú di quanto essi possono vedere e possono dare.
Riandavamo, ascoltando l'oratrice, ad altre giornate tragiche indimenticabili. Fiori vermigli di sangue erano sbocciati sui selciati rettilinei della nostra città, fatta d'ordine, di tradizione militare, squadrata negli isolati delle sue case monotone, come un reggimento dell'esercito dei suoi vecchi duchi sabaudi. In una città lontana delle Marche tre sconosciuti eran caduti in un giorno beffardamente consacrato alla libertà statutaria, e serpeggiava per tutta l'Italia una ventata di ribellione a dimostrare che il proletariato aveva ben acquistato una coscienza nazionale se per obbedire ad un sentimento e ad una disciplina di solidarietà nazionale scendeva per le strade a farsi massacrare. Cosí noi commemoravamo i nostri morti. Non vane parole. Non richiami singhiozzanti a sfumate entità umanitarie, ad abbracciamenti generali per vendicare una vita sacrilegamente violentata, ma l'inquadramento delle nostre forze nei ferrei ranghi della solidarietà di classe, ma maree nereggianti di rudi uomini che calavano nei boulevards cittadini a sfilare innanzi alle saracinesche abbassate dei pallidi piccoli uomini della vigilia, rodentisi di rabbia compressa e di paura. Cosí commemoravamo i nostri morti, col sangue dei nostri migliori, e colla promessa di un domani migliore.
Perciò non possiamo non sentir strazio per il piccolo Belgio schiantato, per Miss Cavell caduta sotto il piombo d'un ufficiale prussiano nel compimento del suo dovere di carità. Ma è strazio austero il nostro, che non fluisce in componimenti a rime obbligate, né si inquadra nelle vaneggianti ambagi di un discorso d'occasione. Ci sentiamo presi come nel volante di una macchina che il nostro braccio non può fermare e rinchiudiamo dentro di noi il dolore che c'invetrisce le pupille. Forze naturali irresistibili sono traboccate da argini di carta straccia e vediamo galleggiare cadaveri sulle livide acque, cadaveri di bimbi e di donne strappati dai focolari e dalla culla; e la loro morte ci pare anche piú tragica, perché inutile, perché non rispondente ad una logica dell'azione, ad una necessità della propria conservazione, ma solo ad una concezione meccanica del regolamento della disciplina. Però non ci cospargiamo i capelli di cenere, né ci battiamo le anche in atteggiamento di prefiche, pagate ad una tanto, per il grado della loro commozione. Siamo maschi nei nostri dolori come lo siamo nelle nostre vendette. E perciò non possiamo prendervi sul serio, o eterni ipocriti, venditori di parole e di fumo umanitario.
Riflettiamo leggendo il proclama che il duca d'Artois lanciò proprio da questa nostra Torino invocante una solidarietà di classe tra i coronati e i nobili dell'Europa per la vendetta del ghigliottinamento di Luigi XVI, che ora i bellicissimi legittimisti francesi vogliono beatificare avendo fallito a Valmy il tentativo di riscossa; rimaniamo rigidi dinanzi al vostro nuovo proclama che non ha ossatura ed è un mercato di parole. Non crediamo alla taumaturgia della bacchetta democratica e della giustizia assoluta. Rimaniamo rigidi nella coscienza del nostro accoramento e della impotenza dell'azione da parte vostra. Ma ricordiamo... Perché noi i nostri morti li vendichiamo col nostro sacrificio, col sangue del piú audace e coll'obolo del piú umile, e non facciamo vane ciance di giustizia e di diritto. E saremo noi che vendicheremo Miss Cavell, quando toglieremo la facoltà agli uni di violentare come agli altri d'ingannare i belgi e i serbi e i montenegrini, vasi d'argilla fra i massicci vasi di rame degli eserciti nazionali, e toglieremo anche la facoltà di massacrare gl'inermi contadini di Rocca Gorga e i dimostranti di Ancona con gli agenti della giustizia di classe.
E in un giorno che ci proponiamo di non lunghissima attesa noi, proletariato internazionale, tedesco e belga, serbo e bulgaro, francese e italiano, inglese e russo, quando il giuoco delle forze storiche antagonistiche avrà ripreso il suo ritmo normale, faremo a nostro modo la commemorazione di Miss Cavell e dei sei milioni di nostri compagni che hanno insanguinato i campi della lotta infeconda. E non sarà il nostro un mercato di parole...
[7] Non firmato, Avanti!, ediz. piemontese, 17 gennaio 1916, sotto la rubrica «Il mercato delle parole»
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[1] Con questo resoconto Gramsci esordiva come cronista di conferenze, attività da lui svolta assiduamente (con una trentina di cronache di sicura o probabile attribuzione), tra la fine del 1915 e la prima metà del 1916, nel periodo di più massiccia propaganda patriottica. Lo stesso titolo sarà usato per un successivo resoconto pubblicato nel «Grido del popolo» del 26 febbraio 1916 (cfr. pp. 158-59).
[2] Francesco Ruffini (1863-1934), professore di diritto ecclesiastico all'università di Torino dal 1908 al 1931, senatore dal 1914, ministro della pubblica istruzione nel governo Boselli. Per le «ricerche» cavouriane, cfr. F. Ruffini, La giovinezza di Cavour. Saggio storico secondo lettere e documenti inediti, 2 voli., Bocca, Torino 1912. Nel 1913 Gramsci aveva seguito
11 corso di Ruffini di diritto ecclesiastico (cfr. Togliatti, Gramsci cit., p. 66).
[3] II 21 novembre 1915 Ruffini aveva tenuto una conferenza su II principio di nazionalità, poi raccolta in opuscolo (Treves, Milano 1916, «Le pagine dell'ora»).
Non ho bisogno di premettere che sono un ammiratore dell'ingegno agile e infaticabile dell'autore e che non posso non essere contento di quanto egli ha fatto e fa spesso, come qui, con efficacia e con calore, per convincere, anche chi non vuol essere convinto, della grandezza d'animo e d'ingegno del Farinelli; ma appunto perciò sento di dovermi opporre a quella che è diventata una posa nel Papini.
Il quale, beato lui, crede d'aver sempre vent'anni, di essere sempre il direttore del «Leonardo»[3] e non vuole abbandonare un certo suo atteggiamento tra il comico e il tragico da pitonessa, che incomincia a screditarlo tra coloro stessi che fin qui lo seguirono con amore ed interesse. Non vuol persuadersi il Papini che il successo procuratogli dagli scritti giovanili, anche presso chi era da lui aggredito, non era dovuto affatto a un intimo valore dialettico di essi scritti, ma solo ad un sentimento, naturale ed onorevole per vero, di benevola simpatia per un ragazzo nel quale l'esuberante vitalità, pur manifestandosi in violenti atteggiamenti di ribelle distruttore di vecchiumi, faceva sperare una fioritura maravigliosa di opere nell'età più matura. Invece il Papini è voluto rimanere sempre allo stato di verde promessa della patria e le sue diatribe ora sembrano a molti impotenza che vuol parere robustezza, e i suoi articoli apocalittici gli procureranno fra breve un posto fra i vari Ber-geret e Rastignac[4] che deliziano il bello italo regno. Nel caso particolare il Papini, per la sua solita inclinazione al rapido scrivere, si è lasciato sfuggire dalla penna alcuni goccioloni, che, in chi predica serietà di vita interiore e approfondimento dèi problemi spirituali da tempo immemorabile, fanno trasecolare.
Ricade egli nell'errore volgarissimo, ad altri rimproverato, di credere che un mezzo di studi, una cosa affatto empirica (per es. la scheda), svalori l'opera di chi se ne è servito: cosi, del resto, può fare a meno di leggere e di studiare l'opera. E cosi nella fine del suo scritto sul Farinelli, per accentuare la posizione drammatica dell'illustre maestro nella ritrovata Italia, afferma che egli è solo, non solo fra i dotti colleghi, ma anche, e ciò sarebbe davvero più grave, fra i giovani, ai quali vorrebbe dare tutta l'appassionata anima sua. Ma, con molta probabilità, il Papini non sa nep-pur lui cosa diamine abbia voluto dire con queste parole: le quali, a quanto pare, gli piacciono perché altra volta (nel «Leonardo» del luglio 1906) le ha dette, non meno sibillinamente a proposito del Carducci[5]. Ma ammettiamo che questa volta non si tratti delle amletiane parole, parole, parole[6] che ha voluto dire il Papini? Forse che ogni uomo di genio che sia dotato di squisita sensibilità morale è condannato alla solitudine tra i contemporanei che non riescono ad eguagliarlo? Potrebbe aver ragione: ma ha torto per quanto riguarda il Farinelli, il quale sa, e di ciò gli siamo grati, accostarsi anche ai piccoli, agli umili, cercando di trarli con sé verso l'alto, in una visione sempre più ampia della vita umana; perché è prerogativa del genio, come ha detto altrove il Papini, di farsi un ambiente adatto a ricevere la sua divina impronta. E se il Papini vuol dire che nessuno, e in questo caso i giovani dell'Università di Torino non seguono con reverente affetto l'opera di A. Farinelli e non si lasciano conquistare dal suo caldo entusiasmo per ogni grande e bella manifestazione dello spirito umano, ha di nuovo torto, e torto grave, perché egli fa un'affermazione gratuita alla quale non si è curato di dare una qualsiasi base di verità.
E questo solo io volevo dire, e insieme con me, altri giovani che, sebbene non lo dimostrino con clamori o con inni laudativi, sentono quanta parte del loro animo occupi il Farinelli, che hanno trepidato quando per un momento dubitarono che il maestro li lasciasse per portare il suo insegnamento in altra scuola1, dove certo avrebbe trovato uditorio più numeroso ma non più affettuoso o più fervido, e che si stringono intorno a lui lasciandosi investire dalla fiamma della sua passione, perché in lui trovano una fonte di energia nella davvero non sempre gaia, spensierata e creatrice d'affetti vita universitaria.
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[1] II titolo riprendeva quello di un articolo polemico di Giovanni Papini, Ver Farinelli e per la verità, in «La Voce», anno rv, n. 1, 4 gennaio 1912, nel quale lo scrittore fiorentino difendeva la severità di Farinelli nei confronti di un collega poco scrupoloso. Sulla collaborazione di Gramsci - limitata a questo articolo e al successivo - al «Corriere universitario», uscito con periodicità quindicinale (eccettuato il periodo estivo) dal 5 febbraio 1913 (anno 1, n. 1) al 5 dicembre dello stesso anno (anno 1, n. 9-10), come organo dell'Associazione torinese universitaria, cfr. Renzo Martinelli, Gramsci e il «Corriere universitario» di Torino, in «Studi storici», anno xrv, n. 4, ottobre-dicembre 1973, pp. 906-16. Questo articolo segna, molto probabilmente, l'inizio dell'attività giornalistica di Gramsci a Torino. Lo pseudonimo Alfa Gamma sarà da lui usato in seguito per firmare vari scritti pubblicati nel «Grido del Popolo».
[2] Giovanni Papini, Ventiquattro cervelli. Saggi non critici, Puccini e figli, Ancona 1913. Il «profilo» di Farinelli, citato nell'articolo, è a pp. 263-271.
[3] La rivista «Leonardo» fondata a Firenze da G. Papini («Gian Falco») nel 1903 e pubblicata fino al 1907.
[4] «Rastignac» e «Bergeret», pseudonimi dei giornalisti Vincenzo Morello e Ettore Marroni, note «firme» del giornalismo italiano del tempo.
[5] Cfr. G. F., Carducci è solo, in «Leonardo», anno iv, serie III, agosto 1906, p. 246.
[6] Shakespeare, Amleto, atto II, scena 11.
[7] Gramsci si riferiva alla ventilata successione di Farinelli alla cattedra di letteratura italiana a Bologna dopo la morte di Pascoli (cfr. A. Farinelli, Episodi di una vita, Garzanti, Milano 1946, pp. 208-11). Sull'influenza di Arturo Farinelli (1867-1948), docente di letteratura tedesca all'università di Torino dal 1909 al 1937, sui giovani socialisti torinesi, cfr. P. Togliatti, Gramsci, a cura di E. Ragionieri, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 65.
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