Gramsci introduce la discussione prendendo le mosse dalla critica alle formulazioni di Bukharin contenute nel Manuale popolare di sociologia marxista (1921)
e nella memoria da questi presentata al « Congresso di storia della
Scienza », tenuto a Londra nel 1931. Preposto alla trattazione il
titolo significativo, che riteniamo di suo pugno, « La così detta
“realtà del mondo esterno”», in cui non solo l’aggettivo, ma anche
l’uso sospensivo delle virgolette danno sufficiente indicazione di
tutta la diffidenza dell’autore verso un problema così posto, Gramsci
afferma subito che «tutta la polemica contro la concezione
soggettivistica della realtà , con la quistione “terribile” della
“realtà oggettiva del mondo esterno”, è male impostata, peggio
condotta e in gran parte futile e oziosa » e ripete più avanti, da un
punto di vista più generale, che un chiarimento definitivo sul problema
«avrebbe la più grande portata culturale, perché metterebbe fine a una
serie di discussioni futili quanto oziose e permetterebbe uno sviluppo
organico della filosofìa della prassi, fino a farla diventare
l’esponente egemonica dell’alta cultura» (M. S., p. 139).
Ne discende dunque subito che la presa di posizione netta e quasi
irritata di Gramsci verso l’impostazione del problema in termini
tradizionali non implica una sottovalutazione del problema stesso. Al
contrario, esso viene considerato di tale importanza da poterlo
ritenere uno dei passaggi chiave per lo sviluppo in senso egemonico
della concezione marxista nel suo complesso.
Ma prima di passare all’esposizione del pensiero di Gramsci sul
problema, ci sia consentito chiarire ‘ che non possediamo una prova
documentata per stabilire se, nel periodo in cui egli scrisse le pagine
dedicate al nostro argomento (le fondamentali sono del 1933-1934),
avesse potuto conoscere L’ideologia Tedesca ed i Manoscritti economico-filosofici di Marx usciti rispettivamente per la prima volta nel 1932 e 1933 in edizione tedesca.
Dai suoi scritti non risulta però alcun riferimento né esplicito né
implicito a queste opere marxiane, per cui pare del tutto probabile
l’ipotesi negativa. E, supposta questa ipotesi, sarebbe davvero
straordinario osservare come Gramsci raggiunga molto spesso le stesse
conclusioni di Marx, pur seguendo una via personalissima, se non fosse
facile constatare come, procedendo su alto livello con il metodo del
materialismo storico, sia naturale giungere a conclusioni concordanti.
Nel quadro del materialismo storico prende infatti le mosse
l’argomentazione gramsciana: il problema non sarà dunque impostato
immediatamente sul terreno teoretico, ma situato, in un contesto
storico in cui le posizioni antitetiche saranno viste incarnarsi nei
gruppi sociali che ne sono i portatori e in cui le formulazioni
filosofiche prenderanno corpo nelle ideologie contrapposte rivelandone
la portata ed il peso nella pratica.
Gramsci osserva che di fronte all’antitesi delle estreme posizioni idealistica e materialistico-realistica « il
pubblico popolare » non opera neppure la scelta, «il pubblico “crede”
che il mondo esterno sia obbiettivamente reale» e direttamente
conoscibile, anzi «non crede neanche che si possa porre un tale
problema» (M. S., p. 138).
Per trovare diffusa la concezione soggettivistica bisogna arrivare ai
gruppi intellettualmente più evoluti, agli esponenti cioè della cultura
più avanzata e approfondita. E la frattura fra le due concezioni è così
grave e netta che «il pubblico popolare», di fronte alle formulazioni
della concezione soggettivistica, ne fa oggetto di così clamoroso
sarcasmo che il linguaggio dell’alta cultura si presenta come « un
gergo che ottiene lo stesso effetto di quello di Arlecchino » (M. S.,
p. 139).
Ma pur non accettando quelle concezioni che distaccano, senza possibile
ammissione di legami, il linguaggio del senso comune da quello della
scienza, sembra lecito chiedersi quali siano l’origine ed il valore
critico dei due linguaggi. Si può allora constatare, secondo Gramsci,
che « il senso comune afferma l’oggettività del reale in quanto la
realtà , il mondo, è stato creato da dio indipendentemente dall’uomo,
prima dell’uomo; essa è pertanto espressione della concezione
mitologica del mondo » (M. S., p. 55).
La credenza dell’oggettività del mondo è dunque « di origine
religiosa, anche se chi vi partecipa è religiosamente indifferente »
(M. S., p. 138). E, «d’altronde il senso comune; nel descrivere questa
oggettività , cade negli errori più grossolani; in gran parte è ancora
rimasto alla fase dell’astronomia tolemaica, non sa stabilire i nessi
reali di causa ed effetto, ecc., cioè afferma “oggettiva” anche certa
“soggettività ” anacronistica, perché non sa neanche concepire che
possa esistere una concezione soggettiva del mondo e cosa ciò voglia o
possa significare» (M. S., p. 55).
Di contro a questa concezione, che trova pieno appoggio e favore non
solo nelle correnti cattoliche, ma anche in non poche conciliative
filosofìe borghesi, «è certo che la concezione soggettivistica è
propria della filosofia moderna nella sua forma più compiuta e
avanzata, se da essa e come superamento di essa è nato il materialismo
storico» nel quale trova, fra l’altro, con la teoria delle
sovrastrutture, sbocco storicistico lo sforzo metodologico
dell’idealismo, tradizionalmente formulato solo per via
speculativo-astratta (M. S., p. 139).
Il marxismo traduce infatti «l’affermazione idealistica che la realtà
del mondo è una creazione dello spirito umano » nell’affermazione della
storicità e caducità di tutte le ideologie» «perché le ideologie sono
espressioni della struttura e si modificano col modificarsi di essa»(M.
S., p. 139).
Non riteniamo essenziale approfondire qui il problema delle origini
della concezione corrente « del senso comune. In realtà gli scambi fra
religione e senso comune sono stati molto complessi e quest’ultimo è
andato raccogliendo oltre che influenze religiose tutto un bagaglio di
filosofie arretrate o antiche e in questo senso, come dice Engels,
«deteriori» nel gioco vivo della contemporaneità . In ogni caso ci
sembra senz’altro esatta l’interpretazione gramsciana del senso comune
come portatore di concezioni mistificate, ambivalenti, conservative e
perciò sterili e passive sul terreno di una ideologia progressiva.
Quello che qui importa considerare è che il materialismo storico,
fondandosi insieme come erede e come traspositore su terreno
sociale-politico dell’idealismo hegeliano non può a nessun titolo
allearsi con le posizioni del senso comune contro quelle stesse
formulazioni soggettivistiche che gli hanno fornito gli elementi
sostanziali di metodo. Con la negazione totale dell’origine
soggettivistica in nome del materialismo del senso comune non sarebbe
più consentita la sintesi di materialismo e idealismo, e si darebbe
oggi luogo ad un materialismo forse formalmente più raffinato, ma in
realtà non meno metafisico e contradditorio di quello cosiddetto
volgare.
La contrapposizione del senso comune contro ogni concezione
soggettivistica non può avere dunque altra spiegazione se non quella di
rappresentare drammaticamente «il caso più tipico della distanza che si
è venuta formando tra scienza e vita, fra certi gruppi di
intellettuali, che pure sono alla direzione “centrale” dell’alta
cultura e le grandi masse popolari» (M. S., p. 139).
Che poi in realtà « l’uomo attivo di massa » possa, entro certi limiti, ugualmente operare
in senso progressivo portando dentro di sé i residui della concezione
del mondo secondo il senso comune, non è condizione sufficiente per
secondare la sua posizione acritica.
E’ accaduto invece che alcune correnti marxistiche abbiano imboccata la
strada della conciliazione con il senso comune per particolari ragioni
tattiche o polemiche contingenti, avviandosi o verso concezioni
materialistico-meccanicistiche che accettano « la concezione della
realtà oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica » (M. S., p. 141), o verso concezioni materialistico-scientifiche che insistono sul «
valore delle scienze cosiddette esatte o fisiche » tanto che ad esse
viene attribuita la posizione « di un quasi feticismo anzi della sola e
vera filosofia o conoscenza del mondo » (M. S., p. 139).
L’una e l’altra non sono poi, a ragione veduta, che varianti di una
stessa concezione dei rapporti fra uomo e natura, derivante dalla
medesima posizione di accordo con il senso comune: la prima, più
antica, crede nella conoscenza diretta, immediata; la seconda ammette
la mediazione della scienza, ma le attribuisce facoltà gnoseologiche
assolute. Il curioso è che entrambe, come appunto osserva Gramsci, si
concilino anche con le concezioni religiose correnti sempre ben disposte
ad ammettere che l’uomo scopra via via le leggi della preesistente
costruzione divina e che ogni livello di sapere sia, in certo senso,
definitivo anche se approfondibile, perché è parte della verità totale
teologicamente prestabilita.
D’altra parte bisogna saper comprendere quale forza di attrazione può
aver avuta su una ideologia rivoluzionaria corrispondente ad un
movimento ancora alle origini la possibilità di conciliarsi in un
primo tempo con il senso comune, accanitamente ostile ad ogni
spostamento del suo pensiero soprattutto su questioni apparentemente indirette nello sviluppo della lotta politica.
Del resto era parso possibile, a taluni pensatori marxisti, di capovolgere il «versus» del
senso comune da concezioni religiose a concezione strettamente
materialistiche. Ma la garanzia dell’accento su uno dei termini di una
concezione in realtà ambivalente non può sussistere che per
via dogmatica, dato che la struttura stessa del pensiero non determina
univocamente una direzione. Ed è infatti questa appunto la strada imboccata dal cattolicesimo moderno nei confronti delle scienze naturali: esso le accetta purché siano teologizzate.
Ma l’intransigenza gramsciana, se considera giustificabile un simile
atteggiamento per i periodi iniziali particolarmente aspri e difficili
della lotta passata, non ammette questa possibilità tattica nel quadro
dell’ideologia marxista moderna : «La posizione della filosofia della
prassi è antitetica a questa cattolica: la filosofia della prassi non
tende a mantenere “semplici ” nella loro filosofia primitiva del senso
comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. Se
afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per
limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al basso
livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco
intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso
intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali » (M.
S., p. 11).*
E questo spostare la cultura delle masse al più alto livello possibile
non è per Gramsci fatto accessorio, auspicabile, ma necessità prima,
essenziale. La rottura fra un mondo moderno di operare e una vecchia
visione del mondo secondo canoni mistificati del senso comune può
infatti condurre a conseguenze gravi « sulla condotta morale,
sull’indirizzo della volontà , in modo più o meno energico, che può
giungere fino a un punto in cui la contradditorietà della coscienza g
non permette nessuna azione, nessuna decisione, s nessuna scelta e
produce uno stato di passività morale e politica » (M. S., p. 11).
La posizione di Gramsci va dunque chiarendosi: se il senso comune
rispetto ad una concezione generale del mondo è rimasto « tolemaico,
antropomorfico, antropocentrico » (M. S., p. 120), se esso « è un
aggregato caotico di concezioni disparate e in esso si può trovare
tutto ciò
che si vuole » (M. S., p. 121), occorre dare avvio ad una nuova
apertura di visuale in contrasto con il senso comune, cioè creare un nuovo senso comune, coerente con l’ideologia più avanzata.
Ma come superare la concezione realistica, senza cadere nell’idealismo,
come nutrire il materialismo del metodo presente nelle filosofie
soggettivistiche, provenienti, è vero, dall’alta cultura, ma estranee
ed anzi avverse alla concretezza storicistica? Anche qui, come già
prima nel chiarire le varie posizioni rispetto al problema
dell’oggettività del reale, Gramsci si avvale dell’analisi
materialistico-storicistica : in una società rotta, divisa in classi
fra loro in lotta, ogni gruppo, o corrente, o ideologia cerca di
dimostrare di possedere la verità e di poterla conoscere.
Gli uomini in lotta tendono sempre a pretendere, come già negli
antichissimi tempi, di avere gli dei sopra la loro testa e dalla
propria parte. Ciò corrisponde nell’epoca moderna al poter affermare «
la forza delle cose lavora per me », così che « la
volontà reale si traveste in un atto di fede, in una certa
razionalità della storia, in una forma empirica e primitiva di
finalismo appassionato che appare come un sostituto della predestinazione, della provvidenza, ecc. delle religioni confessionali » (M. S., p. 14).
In quest’ordine di certezze, psicologicamente confermative, stanno
anche le affermazioni sulla conoscibilità del mondo esterno, sulla
oggettività di tale conoscenza, ecc., in breve sta la presunzione di
potersi collocare da un punto di vista assoluto, ‘ dal punto di vista
della verità come tale.
A questo punto il problema della verità è però ipostatizzato e ogni
ricerca è rivolta nel migliore dei casi al suo approfondimento
accademico, alla predicazione o alla imposizione alle parti
avversarie. Ma occorre non equivocare: accade a tratti che si
presentino nella storia ideologie rivoluzionarie con carattere
egemonico e che sia del tutto positiva e lecita la loro affermazione ed
estensione. E’ possibile però dimostrare che nell’epoca moderna a
queste ideologie non occorre il suffragio dell’assolutezza per
raggiungere un livello egemonico e che, anzi, tale attribuzione ne
rende più difficile il cammino e, ad un certo punto, tende a bloccarlo.
E’ ciò appunto che Gramsci chiarisce, domandandosi se nel quadro del
materialismo storico può essere valido un punto di vista assoluto, se
si può cioè ammettere l’esistenza di una oggettività extrastorica ed
extraumana. E si chiede: «Ma chi giudicherà di tale oggettività ? Chi
potrà mettersi da questa specie di “punto di vista del cosmo in sé” e
che cosa significherà un tale punto di vista? » e ne deduce che: «Può
benissimo sostenersi che si tratta di un residuo del concetto di Dio,
appunto nella sua concezione mistica di un Dio ignoto». Infatti
oggettivo non può che significare «sempre “umanamente oggettivo”, cioè
che può corrispondere esattamente a “storicamente soggettivo”, cioè
oggettivo significherebbe “universale-soggettivo”». «L’uomo conosce
oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere
umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la
sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società
umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei
gruppi e della nascita delle ideologie non universali concrete, ma rese caduche immediatamente dall’origine pratica della loro sostanza » (M. S., p. 142).
Gramsci, dunque, non ammette la possibilità da parte di alcuna ideologia di pretendere ad una gnoseologia assoluta, e neppure un’ideologia rivoluzionaria può pretenderlo, anche
se essa tende ad una posizione egemonica, perché appunto l’affermazione
della sua egemonia sta nel porsi il compito di unificare il genere
umano sul piano sociale e quindi anche su quello culturale generale e
non già di presentare come conseguito il risultato. « C’è quindi una
lotta » continua Gramsci « per l’oggettività (per liberarsi dalle
ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per
l’unificazione culturale del genere umano » (M. S., p. 142).
L’oggettività è dunque intesa qui da Gramsci come consenso
intersoggettivo, come posizione comune, come accordo di rapporti
dell’uomo con l’uomo, di rapporti degli uomini fra loro verso le cose,
al di là degli esiti positivi e conclusivi della lotta di classe. Ciò
che l’idealismo affidava e fissava ad una vicenda atemporale dello
Spirito, viene incarnato nello sviluppo di una storia terrena e
faticosa degli uomini. «Ciò che gli idealisti chiamano “Spirito” non è
un punto di partenza, ma di arrivo, l’insieme delle soprastrutture in
divenire verso l’unificazione concreta e oggettivamente universale e
non già un presupposto unitario» (M. S., p. 142).
Nella precisazione della distanza del materialismo storico da qualsiasi
forma di idealismo, si completa rigorosamente l’argomentazione
gramsciana sulla tanto dibattuta questione della formazione e del
valore delle concezioni oggettivistica e soggettivistica del reale.
I due risultati cui approda Gramsci: la caduta della antinomicità di
oggettivo e soggettivo per la loro unificazione concreta, e
l’affermazione della parzialità di tutte le ideologie, ivi compresa la
giudicante, in un’epoca rotta dalla lotta di classe, offrono senza
dubbio una chiave di prima importanza per una serie di interpretazioni
dei problemi sovrastrutturali moderni.
E se un dubbio potesse nascere circa le maggiori difficoltà che la
concezione gramsciana pone rispetto a precedenti teorie assolutistiche,
si potrebbe subito rilevare come sia in realtà più facile ora
affrontare qualsiasi posizione avversaria che pretenda di attribuirsi
un carattere di universalità , riducendola alla sua propria posizione
storico-sociale di parte e battendola poi, sul suo stesso terreno, con
il mostrarle prima questa contraddizione e poi tutte le altre.
Questo tendere al fine di una oggettività umana a carattere universale
non è però soltanto una idea-forza, ma trova profonde radici nel
presente per giustificarne la pretesa concreta per il futuro.
Già Marx, di fronte alla possibile obbiezione se l’unione fra l’uomo e
natura dovesse vedersi soltanto come risultato di una società
aclassista e pertanto non garantibile se non utopisticamente, aveva
chiarito che tale unione aveva avuto luogo da tempo immemorabile
nell’industria, cioè nel lavoro associato, ma che gli uomini non
potevano fruirne per il vizio dell’alienazione.
Gramsci, dal canto suo, chiarisce che l’identificazione fra oggettivo
ed universale-soggettivo è parzialmente anticipabile nel campo delle
scienze naturali-sperimentali e nella tecnologia (e perciò in
definitiva nell’industria). E tale anticipazione è ammissibile, perché
in effetti non è tale, ma in gran parte risultato, entro certi limiti,
già conseguito.
«La scienza sperimentale ha offerto finora il terreno in cui una tale
unità culturale [l'unificazione culturale del genere umano] ha
raggiunto il massimo di estensione: essa è stato l’elemento di
conoscenza che ha più contribuito a unificare lo “spirito”, a farlo
diventare più universale; essa è la soggettività più oggettivata e
universalizzata concretamente» (M. S., p. 142).
Infatti sul piano delle scienze sperimentali gli uomini parlano uno
stesso linguaggio, si comunicano, con perfetta traducibilità ,risultati
conseguiti «indipendentemente gli uni dagli altri, purché essi abbiano
osservato ugualmente le condizioni tecniche di accertamento» (M. S., p.
54).
E l’uscire da questo scambio non significherebbe altro che rimanere
tagliati fuori dai rapporti, cioè annullarsi come uomini non solo
mentalmente, ma anche materialmente e fisicamente. Infatti non è su un
piano astratto che si verifica l’accordo, ma su quello del fare, cioè
sul terreno del lavoro, inteso come manifestazione tipica ed essenziale
dell’uomo. Stare al passo coi tempi è stare al passo con il lavoro
industriale, cioè al livello necessario e sufficiente della vita civile.
Ed il constatare la rottura ideologica fra i vari scienziati, la loro
spesso arretrata concezione generale del mondo, la continua
metafisicizzazione dei risultati della scienza da essi stessi operata
nei modi più vari e contrapposti, se da un lato avverte che la ricerca
nel mondo borghese è tutt’altro che « pura », ma ancora viziata,
ritardata, ostacolata in forme diversissime e pesanti precisamente per
l’inerzia di postulazioni sovrastrutturali conservative o addirittura
reazionarie, dall’altro lato conferma la tesi gramsciana, perché,
appunto, malgrado tutto questo, sul
piano delle scienze sperimentali esiste già in larga misura una
universalità concreta ed una possibilità piena di discorso comune.
Ma queste constatazioni potrebbero indurre pericolosamente una
possibile domanda: se l’identificazione fra oggettivo e
universale-soggettivo ha, per massima parte, già luogo nelle scienze
naturali-sperimentali, non possono queste valere anche come piano di
verità assoluta e servire come terreno di fondazione di verità alle
gnoseologie, che ancora non godono e non possono godere di un carattere
universale?
Naturalmente un simile impianto dovrebbe innanzi tutto essere
subordinato, a sua volta, al fatto che i risultati delle scienze
naturali-sperimentali costituiscano altrettante prove ontologiche
sull’esistenza e natura della materia loro pertinente, intesa come
oggetto di esse, cioè come «mondo esterno».
Ora, in primo luogo, la richiesta appare contradditoria con la stessa
natura delle scienze perché «se le verità scientifiche fossero
definitive, la scienza avrebbe cessato di esistere come tale, come
ricerca, come nuovi esperimenti e l’attività scientifica si ridurrebbe
ad una divulgazione del già scoperto » (M. S., p. 55), o ad un
semplice approfondimento secondo binari tracciati; in secondo luogo la
richiesta, insita nella scienza stessa. Infatti « anche nella scienza,
cercare la realtà fuori degli uomini… appare niente altro che un
paradosso. Senza l’uomo, cosa significherebbe la realtà dell’universo?
Tutta la scienza è legata ai bisogni, alla vita, all’attività
dell’uomo. Senza l’attività dell’uomo, creatrice di tutti i valori,
anche scientifici, cosa sarebbe 1′”oggettività “? Un caos, cioè
niente, il vuoto, se pure così si può dire, perché realmente, se si
immagina che non esiste l’uomo, non si può immaginare la lingua e il
pensiero » (M. S., p. 55).
E ancora, di fronte ad una affermazione tipicamente realistica di
Russell che diceva non potersi pensare l’esistenza di Londra e di
Edimburgo senza l’esistenza dell’uomo, ma potersi, viceversa, pensare
l’esistenza di due punti uno a Nord e uno a Sud, dove oggi esistono due
città , Gramsci osserva: «si può obbiettare che senza pensare
all’esistenza dell’uomo, non si può pensare di “pensare”, non si può
pensare in genere a nessun fatto o rapporto, che esiste solo in quanto
esiste l’uomo. Cosa significherebbe Nord-Sud, Est-Ovest senza l’uomo?
Essi sono rapporti reali e tuttavia non esisterebbero senza l’uomo e
senza lo sviluppo della civiltà . E’ evidente che Est e Ovest sono
costruzioni arbitrarie, convenzionali, cioè storiche, poiché fuori
della storia reale ogni punto della terra è Est e Ovest nello stesso
tempo » (M. S., p. 144).
Convenzionale la scienza, ma non per questo astratta, anzi realtà
umana. Il termine « convenzionale » non deve indurre, precisa Gramsci,
a possibili confusioni : convenzionale significa « storico-culturale »,
cioè presuppone un accordo universale, dotato perciò di carattere
oggettivo. Infatti «spesso i termini “artificiale” e “convenzionale”,
indicano fatti “storici” prodotti dallo sviluppo della civiltà e non
già costruzioni razionalisticamente arbitrarie o individualmente
artificiose » (M. S., pp. 143-44).
Le convenzioni dunque, ontologicamente senza senso, possiedono
storicamente, nel campo della scienza, significati precisi e grazie ad
esse si può « viaggiare per terra e per mare » e « giungere proprio
dove si era deciso di giungere » (M. S., p. 144).
« Razionale e reale si identificano » (M. S., p. 144) nel senso che
ogni formulazione scientifico razionale efficace stabilisce una realtà
umana precisa e identificabile da tutti gli uomini che seguono
determinate regole prestabilite.
E’ dunque chiaro che l’accordo umano sul piano scientifico non
comporta. anche un valore metafisico-ontologico, ma resta un valore
umano, un risultato felicemente raggiunto.
E questo valore, empiricamente constatabile, è autosufficiente e
completo. Solo all’interno di esso si muovono gli autentici problemi.
Infatti « ciò che interessa la scienza non è… l’oggettività del reale,
ma l’uomo che elabora i suoi metodi di ricerca » (M. S., p. 55).
Non esiste un problema della scienza esterno ad essa, perché essa non
ha bisogno di prove al di fuori della sua coerenza interna e della
sua efficacia, né si pone problemi che non siano di lavoro specifico.
Il vecchio problema del mondo esterno e della sua esistenza reale,
risolto filosoficamente come problema dell’unità uomo-natura e risolto
nel campo scientifico all’interno della stessa metodologia della
ricerca, non risulta essere dunque ormai che un « falso » problema,
appartenente alla metafisica tradizionale ed ormai privo di significato.
Tale problema, e ne abbiamo visto appunto la genesi, nasce infatti
dalla richiesta da parte di filosofie ed ideologie di quella
universalità che constatano nella scienza e che esse non sono in
grado, per precise ragioni strutturali, di possedere. Per questo esse
vorrebbero ontologizzare i risultati della scienza, e poi servirsi di
essi come prova e sostegno di verità assoluta. Ora è importante
rilevare come una concezione filosofica o ideologica che cerchi di
fondare la propria validità sui risultati delle scienze sperimentali
non solo neghi la propria capacità di reggersi come filosofìa o come
ideologia, ma operi un’azione di irrigidimento e di fissazione
dogmatico sullo sviluppo della scienza stessa da cui pretende trarre
nutrimento e continuità .
Come vedremo più avanti a proposito dei modi fecondi
per la ricerca scientifica indicati da Gramsci, la credenza della
verità ontologica dei risultati scientifici già latente nella
mentalità corrente dello scienziato, spesso legato ancora alle
concezioni del senso comune, se rafforzata sul piano filosofico
generale, riduce lo sforzo inventivo, lo lega a predeterminati schemi
mentali, non consente l’agilità e la spregiudicatezza dei tentativi
anche arrischiati, alcuni fra i quali consentono poi gli autentici
passi avanti della ricerca stessa.
«I principali “strumenti” del progresso scientifico sono di ordine
intellettuale (e anche politico), metodologico» afferma Gramsci,
citando Engels dove chiarisce l’origine storica degli strumenti stessi.
E aggiunge: «Quanto ha contribuito al progresso delle scienze
l’espulsione dell’autorità di Aristotele e della Bibbia dal campo
scientifico?» (M. S., p. 153).
Tutta la storia della scienza documenta, accanto alla «pars construens»
inventiva, l’enorme sforzo della «pars destruens» contro le
cristallizzazioni filosofiche d’ostacolo che lo scienziato ha dovuto
continuamente affrontare e rimuovere per liberarsi dai vincoli
precludenti la libertà di ricerca.
E d’altra parte anche la storia della filosofia documenta il carattere
chiaramente conservativo di tutte le posizioni ideologiche che hanno
fissata la base della loro costruzione teoretica sui dati delle scienze
sperimentali.
Queste filosofie infatti, che potremmo chiamare «scientistiche», dopo
aver variamente elaborato su piano quasi sempre metafisico gli ultimi
aspetti della ricerca scientifico-sperimentale, tendono implicitamente
a frenare eventuali mutamenti di orizzonte o l’asse della ricerca
stessa per non dover rinunciare o rivedere completamente le proprie
formulazioni.
Gramsci dà due preziosi esempi di critica ad arbitrarie extrapolazioni
filosofiche di risultati scientifici: uno, prendendo lo spunto da
considerazioni fantastiche di G. S. Borgese su una affermazione
scientifica di Eddington (vedi M. S., pp. 50-53), l’altro, criticando
alcune errate illazioni di Bukharin sulla teoria atomica contenuta nel Saggio popolare (vedi M. S., pp. 160-62).
Possiamo soffermarci brevemente sul secondo esempio, più ricco di
implicazioni generali. Bukharin afferma che la nuova teoria atomica
distrugge l’individualismo. Gramsci si chiede: «Ma cosa significa ciò?
Cosa significa questo accostamento della politica alle teorie
scientifiche se non che la storia è mossa da’ queste teorie
scientifiche, cioè dalle ideologie, per cui per voler essere
ultra-materialisti si cade in una forma barocca di idealismo astratto?»
(M. S., p. 161). E continua dimostrando che neppure l’altra possibile
ipotesi, se pure fosse lecita, potrebbe essere valida, quella, cioè,
che sia stata una legge naturale (quella che presiede la concezione
atomistica stessa) a distruggere l’individualismo, poiché in questo
caso essa l’avrebbe già distrutto senza aspettare la convalida della
teoria scoperta di recente dall’uomo.
La conclusione non può essere che anche «la teoria atomistica come
tutte le ipotesi e le opinioni scientifiche sono sovrastrutture», per
cui essa è valida unicamente nel campo specifico della ricerca fìsica
in cui non possiede alcuna validità ontologica, per cui essa, lungi
dal poter spiegare la storia umana, ne è viceversa spiegata nella sua
collocazione in una prospettiva storicistica all’interno delle
sovrastrutture del nostro tempo[1].
E’ appunto sul piano di queste considerazioni che Gramsci osserva che
«è indubbio che l’affermarsi del metodo sperimentale separa due mondi
della storia, due epoche e inizia il processo di dissoluzione della
teologia e della metafisica, e di sviluppo del pensiero moderno, il cui
coronamento è nella filosofia della prassi.
L’esperienza scientifica è la prima cellula del nuovo metodo di
produzione, della nuova forma di unione attiva tra l’uomo e la natura.
Lo scienziato-sperimentatore è anche un operaio, non un puro pensatore
e il suo pensare è continuamente controllato dalla pratica e viceversa,
finché si forma l’unità perfetta di teoria e di pratica» (M. S., p.
143).
Non c’è spazio dunque nel lavoro dell’uomo per fissazioni
sistematizzatrici passivamente gnoseologiche. Non è questa neppure la
strada per un suo conforto psicologico di certezza. Se mai, esso è nel
consumare positivamente i risultati della propria attività , nel
compensarsi esistenzialmente della propria fatica costruttiva.
«Porre la scienza a base della vita, fare della scienza la concezione
del mondo per eccellenza, quella che snebbia gli occhi da ogni
illusione ideologica, che pone l’uomo dinanzi alla realtà così come
essa è, significa ricadere nel concetto che la filosofia della prassi
abbia bisogno di sostegni filosofici all’infuori di se stessa » (M. S.,
p. 56). «In realtà », poiché « anche la scienza è una superstruttura,
una ideologia » (M. S., p. 56), essa è uno strumento dell’uomo che può
raggiungere il carattere di oggettività , ma non sul piano
ontologico-metafisico, bensì su quello dell’accordo umano, strettamente
legato al lavoro umano stesso. E tale lavoro è dotato di divenire e non
solo è impossibile prevederne, a lunga distanza, le linee di sviluppo,
ma è necessario lasciare ogni libertà a tutti gli eventuali
spostamenti, rotture e innovazioni del suo processo interno.
L’uomo sa di non avere ancora ridotto a sé il mondo, di non averlo
interamente umanizzato, e ciò perché egli avverte, e di continuo, la
resistenza delle cose. Ma questo non comporta una postulazione
«noumenica» delle cose stesse. La scienza, infatti, come non fissa
alcuna forma di «conoscenza» metafisica, così «non pone nessuna forma
di “inconoscibile” metafisico, ma riduce ciò che l’uomo non conosce ad
una empirica “non conoscenza” che non esclude la conoscibilità , ma la
condiziona allo sviluppo degli strumenti fisici e allo sviluppo
dell’intelligenza storica dei singoli scienziati» (M. S., p. 55).
Ciò significa dunque soltanto che l’uomo non ha da porsi il problema di
conoscere le cose, ma di conoscere i rapporti di sé con le cose, cioè
di conoscere le cose come strumenti umani e tendere ad accrescerli e
migliorarli.
Quali sono dunque i compiti e i modi specifici e pertinenti della ricerca scientifica nel campo delle scienze sperimentali?
Secondo Gramsci «il lavoro scientifico ha due aspetti principali: uno
che incessantemente rettifica il modo della conoscenza, rettifica e
rafforza gli organi delle sensazioni, elabora principi nuovi e
complessi di induzione e deduzione,… l’altro che applica questo
complesso strumentale (di strumenti materiali e mentali) a stabilire
ciò che nelle sensazioni è necessario da ciò che è arbitrario,
individuale, transitorio. Si stabilisce ciò che è comune a tutti gli
uomini, ciò che tutti gli uomini possono controllare nello stesso modo,
indipendentemente gli uni dagli altri, purché essi abbiano osservato
ugualmente le condizioni tecniche di accertamento» (M. S., p. 54).
Il quadro fissato da Gramsci non permette slabbrature. La scienza è un
complesso di strumenti materiali e logici sottoposto ai principi del
rigore e della verificabilità .
Ciò che interessa la ricerca non sono dunque in nessun modo problemi di
carattere assoluto o metafisico. «Ciò che interessa la scienza» è…
«l’uomo che elabora i suoi metodi di ricerca, che rettifica
continuamente i suoi strumenti materiali che rafforzano gli organi
sensori e gli strumenti logici (incluse le matematiche) di
discriminazione e di accertamento » (M. S., p. 55).
E Gramsci non va oltre su questo terreno ed i suoi accenni ad esso sono
rari e indiretti. Egli, che pure era al corrente delle teorie
scientifiche ed epistemologiche moderne, che conosceva opere di
Eddington e di Russell, cui non erano sconosciute notizie sulla teoria
della probabilità e della relatività ecc., non si permette
extrapolazioni ed illazioni sulle loro impostazioni. Al di là di una
messa a fuoco storicistica comincia infatti la ricerca specifica e
tecnica. Il compito dello storicismo marxista in questo campo non è
già , secondo Gramsci, di gravare la ricerca specifica di vincoli
particolari, ma di offrirle la massima liberazione dagli « idola »
soprattutto « fori » e « theatri ».
Per questo il quadro sui compiti della scienza esposto da Gramsci vale, paradossalmente, più per quanto esclude che per quanto include, più per la libertà che propone che per le indicazioni che dà .
E’ infatti nel grande motivo sulla libertà della ricerca che si
sviluppano le considerazioni di Gramsci, dalla impostazione sui suoi
limiti e diritti («chi fisserà “diritti della scienza” e i limiti
della ricerca scientifica e potranno questi diritti e questi limiti
essere propriamente fissati? Pare necessario che il lavoro di ricerca
di nuove verità e di migliori… sia lasciato all’iniziativa libera dei
singoli scienziati, anche se essi continuamente ripongono in
discussione gli stessi principi che paiono i più essenziali») (M. S.,
pp. 18-19), alla preoccupazione del rispetto dell’avversario («Non
bisogna concepire la discussione scientifica come un processo
giudiziario, in cui c’è un imputato e c’è un procuratore che, per
obbligo d’ufficio, deve dimostrare che l’imputato è colpevole e degno
di essere tolto dalla circolazione». «Comprendere e valutare
realisticamente la posizione e le ragioni dell’avversario… significa…
porsi da un punto di vista ” critico “, l’unico fecondo nella ricerca
scientifica») (M. S., p. 21). Oltre queste indicazioni limite, Gramsci,
spingendo più addentro il suo discorso, pur mantenendolo rigorosamente
nel campo storicistico (e in questo sta, appunto, la sua forza e
insieme la sua scrupolosa misura), tocca alcuni punti cruciali su piano
metodologico generale, primo fra essi quello riguardante il problema
dell’unicità o della pluralità del metodo scientifico.
Gramsci osserva che ti si chiama “scientifico” ogni metodo» che sia
«simile al metodo di ricerca e di esame delle scienze naturali,
divenute le scienze per eccellenza, le scienze feticcio». Ora questa
concezione positivistica e scientistica non ha più ragione d’essere.
Lo sviluppo moderno della scienza ha dimostrato la possibilità della
fondazione contemporanea di più metodi per attaccare da più lati anche
uno stesso fenomeno. La vecchia preoccupazione ottocentesca dell’unità
di metodo (cui corrispondeva appunto la concezione dell’assolutezza
dello Spirito o della materia) viene a cadere. Oggi «non esistono
scienze per eccellenza e non esiste un metodo per eccellenza, “un
metodo in sé “. Ogni ricerca scientifica si crea un metodo adeguato,
una propria logica, la cui generalità o universalità consiste solo
nell’essere “conforme al fine”». (Passato e Presente, p.
162). Da ciò discende, come corollario, la chiarificazione della non
validità del criterio di analogia: non è possibile applicare ad altri
campi un metodo che ha successo in un settore (M. S., p. 136), né
pensare che le leggi delle scienze naturali possano essere parallele a
quelle della storia (M. S., p. 162).
Il secondo punto cruciale fissato da Gramsci è quello della
chiarificazione della storicità delle scienze. Può avvenire «che una
ricerca sia “scienza” in un certo periodo storico e non in un altro:
infatti altro pregiudizio è che se una ricerca è “scienza” avrebbe
potuto esserlo sempre e sempre lo sarà » (M. S., p. 261).
Queste considerazioni non solo pongono in chiare prospettive l’origine
storica delle varie scienze tradizionali, ma soprattutto indicano la
possibilità del continuo crearsi di nuove scienze che in parte si
collocano accanto alle precedenti, in parte le assorbono esaurendole.
E quali i caratteri di una nuova scienza? «Una scienza nuova raggiunge
la prova della sua efficienza e vitalità feconda… quando risolve con i
propri mezzi le quistioni vitali… o dimostra perentoriamente che tali
quistioni sono falsi problemi» (M. S., p. 130).
Esiste dunque una possibile fine di temi che, portati innanzi per anche
lunghissimi periodi, si sono poi rivelati superflui o mistificati. La
ricerca cambia rotta, esce da vicoli ciechi, si riaggancia alla
realtà . Al continuo mutare dei fini, la scienza adegua i suoi
strumenti. Infatti «in realtà “scientifico” significa “razionale”, e
più precisamente “razionalmente conforme al fine” da raggiungere, cioè
di produrre il massimo col minimo sforzo, di ottenere il massimo di
efficienza economica, ecc., razionalmente scegliendo e fissando tutte
le operazioni e gli atti che conducono al fine» (Passato e Presente, p.
163). La scienza, appunto perché strumentale all’uomo, è a sua volta
strumentale al fine, è il suo percorso, si identifica ad esso come
risultato, è, in questo senso operativo, la sua verità .
Come la scienza sperimentale non patisce difetto dalla impossibilità
di costituirsi anche come ontologia, cosi, come abbiamo accennato
sopra, una concezione ideologica non ha di fatto bisogno di provarsi
sulla scienza per sussistere ed essere feconda. Anche una ideologia può
godere di oggettività e di generalità nel campo sociale che
rappresenta, e la sua efficacia ne è la verifica. La sua
autosufficienza sembra dunque senz’altro possibile.
In particolare «la filosofia della prassi » emerge, a ragione, con
carattere di supremazia, potendo offrire, oltre che una sufficienza
specifica, anche una coerenza interna che ne prova la cor-rettezza
metodologica, precisamente denunciando la frattura storica presente
tanto nel campo strutturale che sovrastrutturale, spiegabile con i
conflitti di classe, e dichiarando apertamente il suo carattere storico
di gruppo, di parte della società .
Ciò significa che oggi precisamente la deliberata rinuncia di una
ideologia all’attribuzione di universalità e di assolutezza
corrisponde alla sua unica possibile fondazione non contraddittoria. Il
problema iniziale appare così completamente rovesciato: se
l’universalità è l’attributo cui tende ogni filosofia, e se è in
definitiva il punto di arrivo verso cui muoversi, l’attribuzione
arbitraria di essa, quando sia dimostrata storicamente insussistente, è
un errore di fondo, è presupporre come dato il risultato da conseguire,
è evadere dall’autentico problema e dai mezzi concreti per risolverlo.
E’ qui infatti che occorre lavorare, riproponendo il problema in senso
costruttivo, anziché proiettarlo in senso dimostrativo-contemplativo,
imboccando una via, del resto e in ogni caso, sterile e oziosa. Ciò
significa spostare l’asse del pensiero da un cercare prove di sostegno
al dare prove di fecondità , dal conoscere all’operare, dalla ricerca
definitoria a quella metodologica; metodologica all’interno
dell’ideologia politico-sociale, metodologica all’interno delle varie
scienze.
L’uomo di Gramsci, come già quello di Marx, è tutto volto alla
costruzione del mondo umano e in primo luogo alla costruzione di se
stesso. Conscio finalmente dell’angustia della sua situazione, egli non
cerca più di scoprire col semplice vantaggio di una giustificazione
verbale le proprie difficoltà , ma di risolverle. « Ponendoci la
domanda che cosa è l’uomo, vogliamo dire: che cosa l’uomo può
diventare, se cioè l’uomo può dominare il proprio destino, può ” farsi
“, può crearsi una vita. Diciamo dunque che l’uomo è un processo e
precisamente è il processo dei suoi atti » (M. S., p. 27).
E atti dell’uomo sono i rapporti che egli stabilisce con gli altri uomini e con le cose: rapporti umani.
Ciò, non individualisticamente, bensì all’interno della società e
all’interno del lavoro, per una risoluzione positiva dell’una e
dell’altro. L’umano, ancora oggi lacerato da lotte e oppressioni, va
inteso come punto di arrivo e non di partenza, come risultato di uno
sforzo di ricostruzione positiva nei rapporti fra gli uomini e di
costruzione tecnica feconda nei rapporti con le cose.
Da ciò discende che l’affermare « che la “natura umana” sia il
“complesso dei rapporti sociali” è la risposta più soddisfacente,
perché include l’idea del divenire: l’uomo diviene, si muta
continuamente col mutarsi dei rapporti sociali e perché nega “l’uomo in
generale” (M. S., p. 31). Così pure l’uomo è il complesso dei rapporti
con le cose in quanto «trasformare il mondo esterno,rapporti generali,
significa potenziare se stesso, sviluppare se stesso» (M. S., p. 35).
Dunque l’uomo è da concepire come «un blocco storico» in divenire, ben
radicato nel mondo e agente della sua trasformazione, in quanto in
continua volitiva e cosciente modificazione di se stesso.
Spontanea sarebbe qui l’obbiezione che l’uomo non è tutto i suoi
rapporti con gli altri uomini e con le cose, ma anche natura biologica,
sia sul piano fisico che psichico, e che tale carattere ha un suo peso,
ben preciso, una sua vicenda non trascurabile.
E l’obbiezione ha senza dubbio ragionevoli fondamenti e propone uno
studio più approfondito delle connessioni fra storia ed evoluzione
naturale, fra i concetti di intervento e di costruzione e quelli di
vicenda originaria, casuale. Ma Gramsci tende a porre in secondo piano
i caratteri dell’uomo come «natura biologica» (l’uomo non è, egli
afferma paradossalmente, né quello che mangia, né il paese che l’abita,
né il colore della sua pelle, ecc.), perché tale aspetto gli appare
come un dato» che non include l’idea del divenire o meglio che
l’include per lentissime strade evoluzionistiche e perciò storicamente
non decisive.
Il ridurre il concetto di uomo a una rete di rapporti giova comunque,
nella concezione gramsciana, ad evitare ogni possibile caduta in una
metafisica sull’essenza umana. Viceversa, l’uomo concepito come nucleo
di rapporti, tesi in continua trasformazione, porta ogni problema sul
terreno storico e metodologico e cioè sul come e perché l’uomo ha agito
e sul come e perché l’uomo deve agire.
Fissata continuamente dunque in una prospettiva storicistica l’azione
dell’uomo, non restai che definirne, con precisione,vari metodi
operativi. Qui appunto interviene il compito delle scienze: scienze dei
rapporti dell’uomo con l’uomo e scienze dei rapporti dell’uomo con le
cose.
Scienze, si badi, ma non allo stesso titolo. Il termine «scienza», è
accolto solo nel senso che «ogni ricerca ha un suo determinato metodo e
costruisce una sua determinata scienza» (M. S., p. 136), cioè «scienza»
vale ricerca guidata e coerente, come contrapposto al «senso comune»
(in sé «equivoco, contradditorio, multiforme», sempre succube di
posizioni mistiche o di filosofie deteriori e passive). Ma la
distinzione non può essere classificatoria, bensì posta essa stessa
storicisticamente.
Di fatto, come abbiamo visto, le scienze dei rapporti fra gli uomini
non possono essere che di classe, di gruppo, e costituirsi, per ragioni
antagonistiche, in campi opposti; le sole scienze naturali-sperimentali
possono pretendere ad una parzialmente realizzata universalità e
quindi disporsi sul piano dell’accordo e dello scambio biunivoco.
Ora, se per la filosofia della prassi il centro fondamentale è
costituito dal concetto che il materialismo storico rappresenta «la
storicizzazione concreta della filosofìa e la sua identificazione con
la storia», filosofia si identifica con «metodologia generale della
storia» (M. S., p. 126) e insieme con politica e perciò con scienza
dell’uomo, in cui si possono separare solo didascalicamente, economia,
sociologia, morale, ecc.
E’ dunque conseguente che tali «scienze» posseggano il carattere che è
proprio dell’ideologia di gruppo piuttosto che quello delle scienze
naturali sperimentali, e precisamente per la loro posizione di parte,
tendente non ad una verificabilità universale (se mai all’interno
dalla propria parte), ma precisamente a rompere una data situazione per
costruirne un’altra qualitativamente diversa. Da questi concetti si
sviluppa appunto la notissima polemica di Gramsci contro le concezioni
che vorrebbero ridurre la filosofia della prassi a scienza sociologica
descrittiva ed a scienza economica generale. Anche qui, dunque, il
carattere universale non è punto di partenza, ma risultato cui tendere.
Da tutto ciò discende che la filosofia della prassi non comporta la
costituzione di un’unica scienza comprendente anche le scienze
sperimentali, e che questa limitazione non diminuisce il valore del
materiale storico, in quanto esso continua a coprire ancora tutto il
campo della ricerca umana in una continua prospettiva storicistica
generale.
Se cioè i rapporti dell’uomo con l’uomo e degli uomini con le cose sono
l’oggetto del materialismo storico, essi sono pure l’oggetto delle
singole scienze naturali-sperimentali. Tali rapporti sarebbero quindi
coperti per così dire due volte da una interpretazione storicistica
generale e da quelle scientifiche particolari.
Gramsci dà un esempio chiarificatore di questa posizione a proposito del concetto di «materia».
«La filosofia della prassi non studia una macchina per conoscerne e
stabilirne la struttura atomica del materiale, le proprietà
fisico-chimico-meccaniche dei suoi componenti naturali (oggetto di
studio delle scienze esatte e della tecnologia),ma in quanto è un
momento delle forze materiali di produzione, in quanto è oggetto di
proprietà di determinate forze sociali, in quanto essa esprime un
rapporto sociale e questo corrisponde ad un determinato periodo
storico» (M. S., pp. 160-61).
L’oggetto viene affrontato dai due possibili lati: quello storicistico
generale articolato nei suoi aspetti (economico, sociologico,
storiogra-fico, etico), e quello scientifico-naturale. Il materialismo
storico verso le scienze naturali-sperimentali non si limita però al
rispetto della loro autonomia, ma agisce in due sensi: si occupa dei
risultati delle scienze naturali-sperimentali nella loro traduzione
sociale-politica in forze di produzione, ed insieme coopera per il loro
migliore sviluppo, introducendo quella componente storicistica che, se
non tocca il lato specifico e tecnico della ricerca, consente però al
ricercatore una lucidità snebbiata dalla metafisica o dai pesi
tradizionali che ostacolano le sue capacità di lavoro. Se, dunque, le
scienze naturali cavano dal nulla storico » nuove forze materiali a
vantaggio dell’uomo, allargando e perfezionando nel mondo la sua
«proprietà privata», le scienze economico-sociali hanno il compito di
fare di queste forze un « elemento economico produttivo » organizzato
nel quadro della concezione materialistico-storicistica che muove e
guida il ritmo di questa fatica alla sua concretizzazione politica
generale.
Come si vede, la concezione gramsciana è estremamente complessa e
ricchissima di articolazioni interne: essa tende a mantenere il
carattere di sintesi del materialismo storico e, nello stesso tempo, a
favorire il più ampio e libero sviluppo delle scienze sperimentali
particolari, senza concedere alcuna indulgenza ad uno schematismo
finalistico. Fissato infatti rigorosamente e stabilmente il quadro (la
filosofia della prassi «deve trattare» «tutta la parte generale
filosofica, deve svolgere quindi coerentemente tutticoncetti generali
di una metodologia della storia, della politica e inoltre dell’arte,
dell’economia, dell’etica e deve nel nesso generale trovare il posto
per una teoria delle scienze naturali» [M. S., p. 128])[2],
in cui è esposto appunto l’aspetto di sintesi del materialismo storico,
Gramsci, e precisamente in forza della prospettiva storicistica
ottenuta, lo rompe: nessuna filosofia può godere del carattere di
universalità fintanto che permane lo stato di lotta di classe, anzi
solo il riconoscimento della parzialità storica e la tensione verso
l’unificazione strutturale e sovrastrutturale del genere umano la
qualificano appunto come rivoluzionaria.
L’estrema sottigliezza dialettica dell’argomentazione scende in
profondità : dopo aver costituito lo schema generale di impostazione,
dopo averlo spezzato drammaticamente nella realtà storica, Gramsci si
trova di fronte al problema di fondarne e giustificarne una possibile
ricostruzione nel campo della sinistra rivoluzionaria. Il «blocco
storico» di sinistra in cui «le forze materiali sono il contenuto e le
ideologie la forma, distinzione di forma e contenuto meramente
didascalica» (M. S., p. 49), sarà il luogo di convergenza degli
elementi positivi e attivi di una società in isviluppo, in cammino
verso la risoluzione delle sue rotture interne.
Ed al concetto di «blocco storico» si connette strettamente e
indissolubilmente quello di «egemonia». Le forze rivoluzionarie, ancora
rappresentanti di una parte soltanto della società , unite nel blocco
storico, ne possono rappresentare anche l’anticipazione unificata, una
società futura «in nuce», in cui ogni atto è insieme sforzo di rottura
e di negazione e sforzo di costruzione e di affermazione.
Per questo l’ideologia della classe rivoluzionaria ha, secondo Gramsci,
il compito intrinseco di costituirsi al massimo livello culturale, di
essere contemporaneamente forza di movimento e raccolta di valori
culturali passati e presenti della società nella sua interezza.
Qui dunque è la chiave di tutto lo sviluppo del pensiero gramsciano che
abbiamo percorso: dalla sua opposizione alle concezioni del «senso
comune » alla sua attenzione ai risultati dell’«alta cultura », dalla
sua avversione verso gli atteggiamenti quotidianizzati e contingenti
alla sua preoccupazione di fondare una teoria non tanto immediatamente
tattica quanto solida sulle grandi distanze storiche, sui fondamentali
contenuti di fondo.
Tutta la fatica gramsciana si può riassumere nel suo programma di
«determinare una ripresa adeguata della filosofia della prassi, di
sollevare queste concezioni che si è venuta, per le necessità della
vita pratica immediata “volgarizzando”, all’altezza che deve
raggiungere per la soluzione di compiti più complessi che lo
svolgimento attuale della lotta propone, cioè alle creazione di una
nuova cultura integrale, che abbia i caratteri di massa della Riforma
protestante e dell’Illuminismo francese e abbia i caratteri di
classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano» (M. S., p.
199). Una cultura su piano «europeo e mondiale» (M. S., p. 200) che
promuova uno «sviluppo organico della filosofia della prassi, fino a
farla diventare l’esponente egemonica dell’alta cultura» (M. S., p.
139).
Vent’anni fa dunque Gramsci vedeva già l’urgenza di riaprire porte e
finestre alla monade marxista, di estrovertirla dalla propria arroccata
solitudine, di opporla dialetticamente alle concezioni del mondo che
continuamente si pongono e sviluppano, per esaminarne le possibilità
metodologiche, per indirizzarne o angolarne diversamente il corso
stesso verso problemi e realtà concrete e preminenti, per riportarsi
sempre ad una altezza maggiore dell’avversario anche in senso
strettamente tecnico.
Non abbiamo spazio qui per andare oltre alle premesse. Ci basti
accennare, ritornando agli argomenti di cui ci siamo soprattutto
occupati, come Gramsci indichi appunto questa possibilità con estrema
larghezza, tanto che oggi si potrebbe comprendere una cautela maggiore
ed una prudenza più restrittiva. «La scienza, nonostante tutti gli
sforzi degli scienziati, non si presenta mai come nuda nozione
obbiettiva; essa appare sempre rivestita da una ideologia». «E’ però
vero che in questo campo è relativamente facile distinguere la nozione
obbiettiva dal sistema di ipotesi, con un processo di astrazione che è
insito nella stessa metodologia scientifica, in modo che si può
appropriarsi dell’una e respingerne l’altra. Ecco perché un gruppo
sociale può appropriarsi la scienza di un altro gruppo senza accettarne
l’ideologia» (M. S., p. 56).
E ancora a proposito della discussione su un passo del volume «La
natura del mondo fisico» di Eddington, che comporta una presa di
posizione verso le correnti epistemologiche moderne, Gramsci, dopo
avere, e giustamente, osservato che queste posizioni, ancora legate ad
«una fase transitoria e iniziale di una nuova epoca scientifica»
possono richiamare antiche forme di sofistica, aggiunge: «Sofismi che
tuttavia hanno rappresentato una fase nello sviluppo della filosofia e
della logica, e hanno servito a raffinare gli strumenti del pensiero»
(M. S., p. 53).
E inoltre «La metodologia più generica e universale non è altro che la
logica formale o matematica». «Questa metodologia astratta, cioè la
logica formale, è spregiata dai filosofi idealisti, ma erroneamente: il
suo studio corrisponde allo studio della grammatica, cioè corrisponde
non solo ad un approfondimento delle esperienze passate di metodologia
del pensiero (della tecnica del pensiero), a un assorbimento della
scienza passata, ma è una condizione per lo sviluppo ulteriore della
scienza stessa» (Passato e Presente, pp. 162-63), e aggiunge una proposta di studio dei lavori di Russell e di Peano.
Gramsci, in realtà , non giunge a prendere una precisa posizione verso
le teorie moderne ed è anche chiaro che le sue informazioni sono
frammentarie e discontinue[3].
Ma al di là delle posizioni particolari, ciò ‘che ci viene da Gramsci
è in ogni caso una preziosa indicazione di metodo verso lo studio di
questi problemi e, soprattutto, la precisazione di un atteggiamento.
La scienza moderna ha elaborato nei campi più vari dell’economia, della
sociologia, della statistica, dell’etica, dell’estetica, della
biologia, delle scienze fisico-matematiche, una gamma estremamente
estesa di teorie e di tecniche, spesso elaboratissime nei criteri di
impostazione, di svolgimento e di accertamento.
In realtà la formulazione di queste scienze risente del contrasto
politico-sociale quasi sempre conservativo in cui vengono elaborate.
Per cui si presentano intrise di elementi estranei alla ricerca
scientifica di fondo, spesso sono addirittura tradotte per fini
nettamente reazionari o da essi irrimediabilmente travolte, e cooperano
ad una ripresa dell’ideologia tradizionale già battuta dalle ideologie
progressive su piano sia filosofico che politico.
Non vi è dubbio però che anche le armi con cui i vecchi schemi
conservativi sono stati affrontati e sgretolati si sono usurate nel
tempo. Occorre rinnovarle e spesso è lo stesso avversario che può
offrirne qualcuna. Si tratta in un certo senso di portare avanti con
continuità il gioco fatto da Marx su Hegel, ripreso da Gramsci su
Croce e che oggi si può proporre su alcuni aspetti della filosofia e
delle scienze moderne.
Va da sé che senza un forte pensiero originale questi contributi od
innesti non avrebbero senso. Ma è anche vero che un pensiero originale
non può crescere in un’oasi, in un recinto chiuso. Il pensiero
storicistico marxista si può sviluppare anzi, secondo Gramsci,
precisamente per sollecitazione dialettica, per contrasto, e
l’esercizio sulle altre ideologie moderne consente appunto
l’affermazione di due aspetti essenziali: il primo di essere nei loro
confronti all’altezza dei tempi e per ogni lato e verso superiori, il
secondo, che deriva dal primo, di porsi in ogni momento come fatto
egemonico, cioè come forza dominante proprio anche perché capace di
assorbire tutto il pensiero passato e presente, di farsi erede della
fatica totale dell’uomo.
In questo bisogno di misurarsi, nella spinta curiosa, nel gusto
dell’esperimento, nell’ambizione della scoperta sta infatti il nucleo
essenziale del messaggio morale di Gramsci, della sua complicata
presenza moderna, del suo coraggio di credere nell’efficacia delle
sovrastrutture, nel suo insegnamento ad amare la verità come uccello
diurno.
[1] E vale forse la pena di aggiungere, per togliere ogni possibile ingiustificata ombra d’idealismo nelle considerazioni di Gramsci, che dall’idealismo è evidentemente sempre così attentamente lontano, che non c’è niente di male nell’affermare che « come forza naturale astratta, l’elettricità esisteva anche prima della sua riduzione a forza produttiva » (M. S., p. 161), e che essa operava come « mera forza naturale (come scarica elettrica che provoca incendi, per esempio) ». Tutta la scienza si regge sulla postulazione empirica dell’esistenza delle cose, di cui l’uomo si accorge come « resistenza delle cose », come « empirica ” non conoscenza ” » (M. S., p. 55). Di qui infarti nasce il suo lavoro come bisogno di impadronirsene, di operare una scelta a suo vantaggio, di storicizzarla come « elemento di produzione » o, se si vuole, di fame il suo stesso « corpo inorganico » (Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 88, Torino, 1949).
Ma ciò che importa osservare è che è appunto questo processo di conquista o di acquisto che interessa l’uomo, e non l’indugiare pericolosamente, per essere « ultramaterialisti », sulla contemplazione dei postulati empirico-esistenziali trasponendoli sul piano di una gnoseologia metafisico-ontologica del tutto tradizionale e conservativa.
[2] Naturalmente fuori di questo quadro cade ogni pretesa di fondare tout court una storia della natura o una storia generale dell’uomo e della natura come un tutto omogeneo. Questa pretesa presupporrebbe innanzitutto la possibilità di mettersi da un « punto di vista del cosmo in sé» (M. S., p. 142). Ma come potrebbe concepirsi « una storia in sé»? Tutto ciò che genericamente avviene ha storia, se per storia intendiamo un’evoluzione diretta e controllata secondo una linea traducibile in leggi? Al di fuori del punto di vista e dell’intervento dell’uomo, non vale ogni cosa come un’altra, ogni fatto come infiniti altri che compongono l’esistenza e la realtà ? Non è, dunque, solo dell’uomo avere un’esperienza come storia? Gramsci ritiene esatta quest’ultima ipotesi e qui il problema di una storia della natura o addirittura di un» storia generale non gli appare che come un falso problema, una forma di «misticismo » passivo al posto di una posizione costruttiva; uno scambiare la storia dei rapporti dell’uomo con le cose come storia delle cose; un ribaltare all’indietro le leggi dell’evoluzione storica nell’evoluzione naturale; un antropomorfizzare il caso e il caos sui quali l’uomo ha tessuto si materialmente la sua trama, ma per liberarsene; uno scambiare insomma la fatica costruttiva dell’uomo per un destino biologico.
[3] E’ però in diversi casi possibile applicare la sua concezione generale verso alcune tipiche posizioni moderne. E’ implicita ad esempio nel suo pensiero l’affermazione dell’impossibilità di fondare nell’epoca presente una «scienza unificata», tentativo che è uno dei farti moderni pili importanti nel campo di una impostazione generale del problema della scienza e che fa capo a progetto per una « International Encyclopedia of United Science» curata dall’Università di Chicago, intorno a cui si sono raccolti e si muovono e lavorano i più alti esponenti della cultura scientifica contemporanea. In realtà , se i risultati parziali possono essere del più grande valore, il problema dell’unificazione di tutte le scienze anche intesa nel senso più articolato e largo possibile, non può porsi oggi che come un fine da raggiungere, e non per via puramente speculativa, ma con la concreta unificazione culturale e sociale degli uomini.