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1947 - Recensione di Benedetto Croce alle Lettere dal carcere

in «Quaderni della “Critica” diretti da B. Croce», luglio 1947, n. 8, pp. 86-88.

ANTONIO GRAMSCI — Lettere dal carcere. — Torino, Einaudi, 1947 (8°, p. 260).


Dell'opera del Gramsci nella formazione di un partito comunista italiano altri potrà parlare con l'informazione e con l'esperienza che io non ho in questa parte. Ma il libro che ora si pubblica delle sue lettere appartiene anche a chi è di altro od opposto partito politico, e gli appartiene per duplice ragione: per la reverenza e l'affetto che si provano per tutti coloro che tennero alta la dignità dell'uomo e accettarono pericoli e persecuzioni e sofferenze e morte per un ideale, che è ciò che Antonio Gramsci fece con fortezza, serenità e semplicità, talché queste sue lettere dal carcere suscitano orrore e interiore rivolta contro il regime odioso che lo oppresse e soppresse; — e perché come uomo di pensiero egli fu dei nostri, di quelli che nei primi decennii del secolo in Italia attesero a formarsi una mente filosofica e storica adeguata ai problemi del presente, tra i quali anch'io mi trovai come anziano verso i più giovani. E rivedo qui i frutti di quegli anni: il rinnovato concetto della filosofia nella sua tradizione speculativa e dialettica e non già positivistica e classificatoria, l'ampia visione della storia, l'unione dell'erudizione col filosofare, il senso vivissimo della poesia e dell'arte nel loro carattere originale, e con ciò la via aperta a riconoscere nella loro positività e autonomia tutte le categorie ideali. Il Gramsci sapeva benissimo e insisteva per suo conto che i poeti bisogna leggerli c ammirarli per i soli loro «valori estetici», e non già amarli per il loro «contenuto ideologico», circa il quale si poteva anche lasciare al Marx la libertà di «disprezzare» il Goethe in quanto uomo (per malinconico e alquanto sciocco, dico io, che fosse quell'aggiunto o intruso disprezzo). Nel leggere i suoi molti giudizii su uomini e libri, mi è accaduto di accettarli quasi tutti o forse addirittura tutti. Certo, c'era verso di me un dissenso in un punto teorico importante che si legava in lui alia sua fede e azione di comunista. Al qual proposito debbo anzitutto dargli ragione quando egli osserva (p. 106) che la mia «posizione verso il materialismo storico era completamente mutata» rispetto a quella di alcuni anni innanzi; e soltanto spiegargli quella che a lui appariva «cosa strabiliante». Nel 1895, quand'io, non ancora trentenne, presi a studiare il Marx e ìl materialismo storico, la mia sollecitudine, alquanto impaziente, era per quel che potessi apprenderne per meglio indirizzare i miei lavori di storia; e il risultato fu, com'è noto, che, rigettando la dottrina come filosofìa della storia 0 filosofia in genere, l'accettai e la feci valere come «canone empirico», come esortazione agli storici di dare l'importanza che non solevano dare nelle loro ricostruzioni e nella loro stessa cultura all'economia. Ma col passare del tempo, cioè con l'insistente meditazione ed indagine, essendomi impegnato sempre più, come non pensavo di fare, negli studi filosofici e avendo ordinatamente ripercorsa la storia della filosofia, compresi Marx non più nei servigi intellettuali che poteva renderci, o che già a me aveva resi, ma in sè stesso, in quel che era stato storicamente e integralmente, e vidi in lui uno dei non pochi paradossali e passionali giovani improvvisatori dell'ala sinistra hegeliana, che si formarono negli «anni quaranta», come dicono i tedeschi, e sostanzialmente hegeliano in tutto ciò che filosoficamente è sostanziale, cioè nella sua logica (come, del resto, è dimostrato in un articolo di questo stesso Quaderno della Critica), Insomma, rispetto al materialismo storico io ero passato in certo modo come dall'una all'altra epoca degli scavi di Pompei, dal metodo a predatorio» (portar via gli oggetti pregiati e importanti, trascurando le altre parti e le circostanze dello scavo) al metodo «scientifico» (che conserva tutto e tutto accuratamente descrive). Credo che se avessi potuto di ciò discorrere col Gramsci ci saremmo agevolmente accordati sulla verità del mio mutamento, che era piuttosto un integramento.
Mi si consenta di notare senza spirito alcuno di offesa, che gli odierni intellettuali comunisti italiani troppo si discostano dell'esempio del Gramsci, dalla sua apertura verso la verità da qualsiasi parte gli giungesse, dal suo scrupolo di esattezza e di equanimità, dalla gentilezza e affettuosità del suo sentire, dallo stile suo schietto e dignitoso, e per queste parti avrebbero assai da imparare dalle pagine dì luì, laddove noialtri, nel leggerlo, ci confortiamo di quel senso della fraternità umana che, se sovente si smarrisce nei contrasti politici, è dato serbare nella poesia e nell'opera del pensiero, sempre che l'anima si purghi e di salire al cielo si faccia degna, come accadeva al Gramsci. Raccomandai, anni addietro, ai giovani comunisti napoletani, armati di un catechismo filosofico scritto dallo Stalin, di levare gli occhi alle statue che sono in Napoli di Tommaso d'Aquino, di Giordano Bruno, di Tommaso Campanella, di Giambattista Vico e degli altri nostri grandi pensatori e adoprarsi a portare, se potevano, la dottrina comunistica a quell'altezza e congiungerla a quella tradizione. Ma ora io addito non statue marmoree ma un uomo da molti di loro conosciuto di persona, e il cui ricordo dovrebbe essere in loro vivo per qualcosa di meglio che il vuoto suono del nome e l'abuso irrispettoso che se ne fa per una polemica insipida, benché di mala fede.


B. C.

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