CRONACHE DELL’“ORDINE NUOVO” [XXIV]
“L’Ordine Nuovo”, anno I, n. 33, 10 gennaio 1920.
L’“Humanité”, organo ufficiale del Partito socialista francese, nel suo
numero del 27 dicembre scorso, riporta nei suoi punti essenziali la
mozione per la costituzione dei Consigli di fabbrica votata al
Congresso camerale di Torino da 38 mila operai organizzati, e la
commenta in modo molto favorevole. In essa, e nel fatto che in tutta
Italia ormai la quistione dei Consigli è posta e aspetta da parte delle
masse una soluzione, l’“Humanité” vede un segno della maturità politica
del proletariato italiano che, mentre l’istituto parlamentare viene
progressivamente decomponendosi, inizia i primi esperimenti per la
creazione degli organi attraverso i quali i lavoratori potranno
assumere la direzione della società che la gestione borghese ha portato
allo sfacelo, discute l’estensione delle loro attribuzioni, cerca di
determinare con esattezza il loro compito e i rapporti loro con gli
organismi esistenti.
Informando il pubblico francese sul movimento italiano, l’“Humanité” ha
anche parole per noi lusinghiere di elogio. La nostra rivista e il tono
elevato delle discussioni che in essa si fanno sono portati come
esempio dell’alto grado di sviluppo intellettuale, della buona
educazione politica e sociale dei lavoratori che la leggono e la
sostengono. È certo che noi non rifuggiamo, come dice lo scrittore
dell’“Humanité”, dall’entrare in particolari di carattere teorico, dal
richiedere al nostro lettore uno sforzo sostenuto e prolungato di
attenzione, e ciò facciamo con piena convinzione di agire onestamente e
da buoni socialisti, se non proprio da giornalisti accorti e studiosi
di popolarità e di diffusione.
Sì, è vero, abbiamo pubblicato articoli “lunghi”, studi “difficili”, e
continueremo a farlo, ogni qualvolta ciò sarà richiesto dall’importanza
e dalla gravità degli argomenti; ciò è nella linea del nostro
programma: non vogliamo nascondere nessuna difficoltà, crediamo bene
che la classe lavoratrice acquisti fin d’ora coscienza dell’estensione
e della serietà dei compiti che le incomberanno domani, crediamo onesto
trattare i lavoratori come uomini cui si parla apertamente, crudamente,
delle cose che li riguardano. Purtroppo gli operai e i contadini sono
stati considerati a lungo come dei bambini che hanno bisogno di essere
guidati dappertutto, in fabbrica e sul campo, dal pugno di ferro del
padrone che li stringe alla nuca, nella vita politica dalla parola
roboante e melliflua dei demagoghi incantatori.
Nel campo della cultura poi, operai e contadini sono stati e sono
ancora considerati dai più come una massa di negri che si può
facilmente accontentare con della paccottiglia, con delle perle false e
con dei fondi di bicchiere, riserbando agli eletti i diamanti e le
altre merci di valore. Non v’è nulla di più inumano e antisocialista di
questa concezione. Se vi è nel mondo qualcosa che ha un valore per sé,
tutti sono degni e capaci di goderne. Non vi sono né due verità, né due
diversi modi di discutere. Non vi è nessun motivo per cui un lavoratore
debba essere incapace di giungere a gustare un canto di Leopardi più di
una chitarrata, supponiamo, di Felice Cavallotti o di un altro poeta
“popolare”, una sinfonia di Beethoven più di una canzone di
Piedigrotta. E non vi è nessun motivo per cui, rivolgendosi a operai e
contadini, trattando i problemi che li riguardano così da vicino come
quelli dell’organizzazione della loro comunità, si debba usare un tono
minore, diverso da quello che a siffatti problemi si conviene. Volete
che chi è stato fino a ieri uno schiavo diventi un uomo? Incominciate a
trattarlo, sempre, come un uomo, e il più grande passo in avanti sarà
già fatto.