Il popolo delle scimmie
Il popolo delle scimmie[1], in "L'Ordine Nuovo", 2 gennaio 1921, I, n. 2; raccolto in Antonio Gramsci, Socialismo e fascismo. L'Ordine Nuovo 1921-1922, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1966, pp. 9-12.
Il fascismo è stato l'ultima «rappresentazione» offerta dalla piccola borghesia urbana nel teatro della vita politica nazionale. La miserevole fine dell'avventura fiumana[2] è l'ultima scena della rappresentazione. Essa può assumersi come l'episodio piú importante del processo di intima dissoluzione di questa classe della popolazione italiana.
Il processo di sfacelo della piccola borghesia si inizia nell'ultimo decennio del secolo scorso. La piccola borghesia perde ogni importanza e scade da ogni funzione vitale nel campo della produzione, con lo sviluppo della grande industria e del capitale finanziario: essa diventa pura classe politica e si specializza nel «cretinismo parlamentare». Questo fenomeno, che occupa una gran parte della storia contemporanea italiana, prende diversi nomi nelle sue varie fasi: si chiama originalmente «avvento della sinistra al potere», diventa giolittismo, è lotta contro i tentativi kaiseristici di Umberto I, dilaga nel riformismo socialista. La piccola borghesia si incrosta nell'istituto parlamentare: da organismo di controllo della borghesia capitalistica sulla Corona e sull'amministrazione pubblica, il Parlamento diviene una bottega di chiacchiere e di scandali, diviene un mezzo al parassitismo. Corrotto fino alle midolla, asservito completamente al potere governativo, il Parlamento perde ogni prestigio presso le masse popolari. Le masse popolari si persuadono che l'unico strumento di controllo e di opposizione agli arbitrii del potere amministrativo è l'azione diretta, è la pressione dall'esterno. La settimana rossa del giugno 1914[3], contro gli eccidi, è il primo, grandioso intervento delle masse popolari nella scena politica, per opporsi direttamente agli arbitrii del potere, per esercitare realmente la sovranità popolare, che non trova piú una qualsiasi espressione nella Camera rappresentativa: si può dire che nel giugno 1914 il parlamentarismo è, in Italia, entrato nella via della sua organica dissoluzione e col parlamentarismo la funzione politica della piccola borghesia.
La piccola borghesia, che ha definitivamente perduto ogni speranza di riacquistare una funzione produttiva (solo oggi una speranza di questo genere si riaffaccia, coi tentativi del partito popolare per ridare importanza alla piccola proprietà agricola e coi tentativi dei funzionari della Confederazione generale del lavoro per galvanizzare il morticino - controllo sindacale) cerca in ogni modo di conservare una posizione di iniziativa storica: essa scimmieggia la classe operaia, scende in piazza. Questa nuova tattica si attua nei modi e nelle forme consentiti a una classe di chiacchieroni, di scettici, di corrotti: lo svolgimento dei fatti che hanno preso il nome di «radiose giornate di maggio»[4], con tutti i loro riflessi giornalistici, oratori, teatrali, piazzaioli durante la guerra, è come la proiezione nella realtà di una novella della giungla del Kipling: la novella del Bandar-Log, del popolo delle scimmie, il quale crede di essere superiore a tutti gli altri popoli della giungla, di possedere tutta l'intelligenza, tutta l'intuizione storica, tutto lo spirito rivoluzionario, tutta la sapienza di governo, ecc., ecc. Era avvenuto questo: la piccola borghesia, che si era asservita al potere governativo attraverso la corruzione parlamentare, muta la forma della sua prestazione d'opera, diventa antiparlamentare e cerca di corrompere la piazza.
Nel periodo della guerra il Parlamento decade completamente: la piccola borghesia cerca di consolidare la sua nuova posizione e si illude di aver realmente raggiunto questo fine, si illude di aver realmente ucciso la lotta di classe, di aver preso la direzione della classe operaia e contadina, di aver sostituito l'idea socialista, immanente nelle masse, con uno strano e bislacco miscuglio ideologico di imperialismo nazionalista, di «vero rivoluzionarismo», di «sindacalismo nazionale». L'azione diretta delle masse nei giorni 2-3 dicembre, dopo le violenze verificatesi a Roma da parte degli ufficiali contro i deputati socialisti, pone un freno all'attività politica della piccola borghesia, che da quel momento cerca di organizzarsi e di sistemarsi intorno a padroni piú ricchi e piú sicuri che non sia il potere di Stato ufficiale, indebolito ed esaurito dalla guerra.
Dopo aver corrotto e rovinato l'istituto parlamentare, la piccola borghesia corrompe e rovina anche gli altri istituti, i fondamentali sostegni dello Stato: l'esercito, la polizia, la magistratura.
Corruzione e rovina condotte in pura perdita, senza alcun fine preciso (l'unico fine preciso avrebbe dovuto essere la creazione di un nuovo Stato: ma il «popolo delle scimmie» è caratterizzato appunto dall'incapacità organica a darsi una legge, a fondare uno Stato): il proprietario, per difendersi, finanzia e sorregge una organizzazione privata, la quale, per mascherare la sua reale natura, deve assumere atteggiamenti politici «rivoluzionari» e disgregare la piú potente difesa della proprietà, lo Stato. La classe proprietaria ripete, nei riguardi del potere esecutivo, lo stesso errore che aveva commesso nei riguardi del Parlamento: crede di potersi meglio difendere dagli assalti della classe rivoluzionaria, abbandonando gli istituti del suo Stato ai capricci isterici del «popolo delle scimmie», della piccola borghesia. Sviluppandosi, il fascismo si irrigidisce intorno al suo nucleo primordiale, non riesce piú a nascondere la sua vera natura. Conduce una campagna feroce contro l'on. Nitti presidente del consiglio, campagna che giunge fino all'aperto invito ad assassinare il primo ministro; lascia tranquillo l'on. Giolitti e gli permette di portare «felicemente» a termine la liquidazione
dell'avventura fiumana; l'atteggiamento del fascismo verso Giolitti ha subito segnato la fortuna di D'Annunzio e ha posto in rilievo il vero fine storico dell'organizzazione della piccola borghesia italiana. Quanto piú forti sono diventati i «fasci», quanto meglio inquadrati sono i loro effettivi, quanto piú audaci e aggressivi essi si dimostrano contro le Camere del lavoro, e i comuni socialisti, tanto piú caratteristicamente espressivo è stato il loro atteggiamento verso il D'Annunzio invocante l'insurrezione e le barricate. Le pompose dichiarazioni di «vero rivoluzionarismo» si sono concretate in un petardo inoffensivo fatto esplodere sotto un androne della Stampa!
La piccola borghesia, anche in questa sua ultima incarnazione politica del «fascismo», si è definitivamente mostrata nella sua vera natura di serva del capitalismo e della proprietà terriera, di agente della controrivoluzione. Ma ha anche dimostrato di essere fondamentalmente incapace a svolgere un qualsiasi compito storico: il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea storia, lascia traccia nel giornale, non offre materiali per scrivere libri. La piccola borghesia, dopo aver
rovinato il Parlamento, sta rovinando lo Stato borghese: essa sostituisce, in sempre piú larga scala, la violenza privata all'«autorità» della legge, esercita (e non può fare altrimenti) questa violenza caoticamente, brutalmente, e fa sollevare contro lo Stato, contro il capitalismo, sempre piú larghi strati della popolazione.
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[1] Titolo tratto da una novella del primo Libro della giungla di Kiplin.
[2] Dopo il trattato di Rapallo del novembre 1920, che aveva fatto di Fiume uno stato indipendente, il blocco navale costrinse D'Annunzio a capitolare. Ai primi di gennaio cominciò l'esodo dei legionari della città.
[3] Nel giugno 1914 si ha l'ultimo sciopero generale di protesta, prima della guerra, contro i massacri di lavoratori, conosciuto sotto il nome di "settimana rossa" per la violenza e la durata della lotta. Il 7 giugno ha luogo ad Ancona un comizio contro le compagnie di disciplina nell'esercito. All'uscita dal comizio le forze di polizia caricano i manifestanti: si hanno tre morti. La Camera del Lavoro proclama lo sciopero generale che, sotto la direzione degli anarchici, si trasforma in uno vero sollevamento nelle Marche e in Romagna e si estende a Milano e altre città. Sconfessato dalla Confederazione generale del lavoro, diretta dai riformisti, il sollevamento termina poco a poco, lasciando sul terreno un centinaio di morti. Gramsci scriverà in seguito che "quegli avvenimenti avevano un grande valore perché rinnovavano i rapporti tra Nord e Sud, tra le classi urbane settentrionali e le classi rurali meridionali". Cfr. A. Gramsci, Passato e Presente, Torino 1951, pp. 39-40.
[4] Sulle agitazioni che precedettero l'entrata in guerra dell'Italia nel maggio del 1915, cfr. R. De Felice, Mussolini, il rivoluzionario, Torino 1965, pp. 287 sgg.
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Si ringrazia Raffaele Di Florio per la digitalizzazione del testo dell'articolo.