Marinetti Rivoluzionario?
in "L’Ordine Nuovo", 5 gennaio 1921, I, n. 5; raccolto in Antonio Gramsci, Socialismo e fascismo. L'Ordine Nuovo 1921-1922, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1966, pp. 20-22
È avvenuto questo fatto inaudito, enorme, colossale, la cui divulgazione minaccia di annientare del tutto il prestigio e il credito dell’Internazionale comunista: a Mosca, durante il II Congresso, il compagno Lunaciarsky ha detto, in un suo discorso ai delegati italiani (discorso, si badi, pronunciato in italiano, anzi in un italiano correttissimo, cosa per cui ogni sospetto di dubbia interpretazione deve essere a priori scartato) che in Italia esiste un intellettuale rivoluzionario e che egli è Filippo Tommaso Marinetti. I filistei del movimento operaio sono oltremodo scandalizzati; è certo ormai che alle ingiurie di: «bergsoniani, volontaristi, pragmatisti, spiritualisti», si aggiungerà l’ingiuria piú sanguinosa di «futuristi! Marinettiani»! Poiché una tale sorte ci attende, vediamo di elevarci fino all’autocoscienza di questa nuova nostra posizione intellettuale.
Molti gruppi di operai hanno visto simpaticamente (prima della guerra europea) il futurismo. Molto spesso è avvenuto (prima della guerra) che dei gruppi di operai difendessero i futuristi dalle aggressioni di cricche di «letterati» e di «artisti» di carriera. Fissato questo punto, fatta questa constatazione storica, viene spontanea la domanda: «In quest’atteggiamento degli operai era l’intuizione (eccoci all’intuizione: bergsoniani, bergsoniani!) di una necessità non soddisfatta nel campo proletario?». Dobbiamo rispondere: «Sí. La classe operaia rivoluzionaria aveva e ha la coscienza di dover fondare un nuovo Stato, di dover elaborare col suo tenace e paziente lavoro una nuova struttura economica, di dover fondare una nuova civiltà». È relativamente facile delineare, già fin d’oggi, la configurazione del nuovo Stato e della nuova struttura economica. Si è persuasi che in questo campo, assolutamente pratico, per un certo periodo di tempo non si potrà far altro che esercitare un potere ferreo sull’organizzazione esistente, sull’organizzazione costruita dalla borghesia: da questa persuasione nasce lo stimolo alla lotta per la conquista del potere e nasce la formula con cui Lenin ha caratterizzato lo Stato operaio: «Lo Stato operaio non può essere, per un certo tempo, altro che uno Stato borghese senza la borghesia»[1].
Il campo della lotta per la creazione di una nuova civiltà è invece assolutamente misterioso, assolutamente caratterizzato dall’imprevedibile e dall’impensato. Una fabbrica, passata dal potere capitalista al potere operaio, continuerà a produrre le stesse cose materiali che oggi produce. Ma in qual modo e in quali forme nasceranno le opere di poesia, del dramma, del romanzo, della musica, della pittura, del costume, del linguaggio? Non è una fabbrica materiale quella che produce queste opere: essa non può essere riorganizzata da un potere operaio secondo un piano, non può esserne fissata la produzione per la soddisfazione di bisogni immediati controllabili e fissabili dalla statistica. In questo campo nulla è prevedibile che non sia questa ipotesi generale: esisterà una cultura (una civiltà) proletaria, totalmente diversa da quella borghese; anche in questo campo verranno spezzate le distinzioni di classe, verrà spezzato il carrierismo borghese; esisterà una poesia, un romanzo, un teatro, un costume, una lingua, una pittura, una musica caratteristici della civiltà proletaria, fioritura e ornamento dell’organizzazione sociale proletaria. Cosa resta a fare? Niente altro che distruggere la presente forma di civiltà. In questo campo «distruggere» non ha lo stesso significato che nel campo economico: distruggere non significa privare l’umanità di prodotti materiali necessari alla sua sussistenza e al suo sviluppo; significa distruggere gerarchie spirituali, pregiudizi, idoli, tradizioni irrigidite, significa non aver paura delle novità e delle audacie, non aver paura dei mostri, non credere che il mondo caschi se un operaio fa errori di grammatica, se una poesia zoppica, se un quadro assomiglia a un cartellone, se la gioventú fa tanto di naso alla senilità accademica e rimbambita. I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, distrutto, distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso un’opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in se stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simile questione, quando i socialisti certamente non avevano una concezione altrettanto precisa nel campo della politica e dell’economia, quando i socialisti si sarebbero spaventati (e si vede dallo spavento attuale di molti di essi) al pensiero che bisognava spezzare la macchina del potere borghese nello Stato e nella fabbrica. I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari; in questo campo, come opera creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto tempo a fare di piú di quanto hanno fatto i futuristi: quando sostenevano i futuristi, i gruppi di operai dimostravano di non spaventarsi della distruzione, sicuri di potere, essi operai, fare poesia, pittura, dramma, come i futuristi; questi operai sostenevano la storicità, la possibilità di una cultura proletaria, creata dagli operai stessi[2].
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[1] Cfr. Stato e Rivoluzione, in Lenin, Opere scelte, Roma 1965, p. 928.
[2] Per un giudizio critico su Marinetti e sul movimento futurista cfr. Lettera sul futurismo italiano a p. 527 del presente volume, e A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino 1954, pp. 59 e 87.
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Si ringrazia Raffaele Di Florio per la digitalizzazione del testo dell'articolo.