Studi sui Quaderni del carcere
La storiografia gramsciana sul Risorgimento
Nel 1952 Federico Chabod scrive a proposito di Croce storico un lungo saggio; in esso si trova un unico, ma decisivo, riferimento alla tesi gramsciana sull'assenza della questione agraria nel Risorgimento: questa sarebbe frutto dell'esperienza politica del biennio 1919-1920, «quando il socialismo non riuscì a trarre a sé, nell'insieme le masse rurali»[1]. A distanza di quattro anni, Domenico Novacco[2], occupandosi di Adolfo Omodeo, parte proprio dalle riflessioni carcerarie, che pure constano di severe critiche, per introdurre il lettore all'opera dello storico palermitano e alla sua sostanziale validità, accettata anche da parte degli storici marxisti che si rifanno alle interpretazioni gramsciane; anche l'attenzione di Leo Valiani, pur in una rassegna dedicata agli studi sulla Storia del movimento socialista in Italia[3], si posa sulle note gramsciane riguardanti il Risorgimento, movimento segnato dalla mancanza di carattere giacobino, in cui le origini del socialismo italiano sono riscontrate nel movimento democratico reale.
L'interesse degli studiosi alla discussione delle interpretazioni storiografiche gramsciane sul Risorgimento inizia con uno scritto di Rosario Romeo[4], il quale, rifacendosi agli studi di matrice liberale, descrive l'interpretazione gramsciana come «revisionismo risorgimentale», inficiata dal proprio «carattere pratico-politico, e quindi fondamentalmente antistorico»[5]. Lo scritto prosegue con un'analisi degli studi sul movimento contadino e quello operaio, con giudizi positivi o sfavorevoli in base all'accettazione o la negazione delle tesi gramsciane.
In risposta alle critiche rivoltegli da Romeo, Aldo Romano pubblica sulla stessa rivista «Nord e Sud» una lettera al direttore Francesco Compagna (autore peraltro di un saggio sulla questione meridionale, citato più avanti), in cui Romano fornisce precisazioni, sfuggite a Romeo, sui propri studi di carattere storiografico.
Dalle pagine di «Cronache Meridionali», su sponde decisamente marxiste, Rosario Villari[6] indica analiticamente a Romeo quali siano i suoi errori nella lettura dell'interpretazione gramsciana e ne ribadisce l'importanza, mentre Claudio Pavone nota come il tentativo di Romeo di utilizzare un'interpretazione marxista contro i propri avversari sia fallito e nel contempo giudica come ipotesi le conclusioni cui perviene l'autore de Il Risorgimento in Sicilia[7]. Luciano Cafagna, dal canto suo, intende fare il punto sul dibattito accesosi intorno alla categoria polemica definita «revisionismo risorgimentale»[8], ma innanzitutto ripercorre il cammino teorico gramsciano dal superamento dell’orianesimo risorgimentale alle coincidenze con il pensiero di Gobetti, evidenziando l’interesse del pensatore sardo per la formazione di un movimento democratico su base nazionale, che coinvolgesse le masse contadine contro i residui feudali. Cafagna nota ancora come le tesi gramsciane si dimostrino uno stimolo per lo stesso Romeo nel trattare il rapporto tra la questione sociale dei contadini e lo sviluppo capitalistico.
A completamento di questa veloce disamina, si può osservare che nella Nota bibliografica dedicata al Risorgimento della Storia dell'Italia moderna di Giorgio Candeloro[9] spicca, tra le interpretazioni di Croce e Gobetti, l'analisi marxista portata avanti da Gramsci.
A riconoscere il pregio dell'analisi storiografica gramsciana, è anche Costanzo Casucci in un saggio dedicato agli studi sulla Prima Guerra mondiale[10]: il pensatore sardo, a differenza delle correnti storiografiche contrapposte, non avrebbe eluso il problema politico posto dalla sconfitta di Caporetto e dalla sua eredità.
L’analisi letteraria negli studi gramsciani
L'estetica
Carlo Salinari[11] nota come in Italia non esista ancora una critica letteraria marxista, mentre, proprio all'epoca in cui si spegne la scuola crociana, si rende necessario un nuovo orientamento che colga i geniali spunti gramsciani e li elabori in modo sistematico. Riferendosi a Salinari, Pier Luigi Contessi[12] indicando come il materialismo storico non abbia toccato che marginalmente il problema dell'arte, sostiene che per intendere una teoria comunista dell'arte possono essere utili le osservazioni di Gramsci; proprio con alcune citazioni dall'opera del Sardo sostiene l'autonomia dell'arte rispetto all'influsso dello sviluppo economico; anche Barberi Squarotti[13] prende a prestito citazioni dai Quaderni del carcere per dimostrare l'esito negativo di un approccio volto a far collimare giudizio estetico e giudizio politico: la fondamentale distinzione gramsciana fra cultura e arte è stata intesa erroneamente, con la conseguente riduzione del momento poetico a momento culturale, sbagliano dunque i critici marxisti ad affermare una regola letteraria e condurre la poesia sul piano dell'azione politica, Barberi Squarotti adduce ancora che il significato della lotta di Gramsci a favore di una cultura nuova non significa la creazione di una nuova arte o di nuovi artisti, bensì implica che la mutata cultura porti con sé le condizioni per un rinnovato momento artistico.
La critica letteraria
Odorardo Strigelli[14] in un saggio del 1952 dedicato alla recente critica dantesca, prende le note carcerarie, precedentemente discusse in forma epistolare attraverso la moglie con il professor Umberto Cosmo, come una svolta radicale nell'interpretazione del canto di Farinata negli sviluppi della critica. Gramsci è infatti il primo a tentare una ripresa unitaria del X canto, dimostrando una complementarità dei due protagonisti Farinata e Cavalcante.
Nel panorama della critica dantesca anche in un accenno di Cesare Garboli è riconosciuto un ruolo importante a Gramsci che, con un'indicazione di metodo, risolve la distinzione crociana tra struttura e poesia rilevandone il rapporto di reciprocità in un «trapasso continuo tra motivo strutturale e motivo poetico»[15].
Con l'esempio della critica al X canto della Divina Commedia, in cui Gramsci emerge come il primo critico materialista eccellente, Galvano della Volpe[16] dimostra come il Sardo, pur raccordandosi all'estetica di Croce, sia in disaccordo con questi negli sviluppi della distinzione tra contenuto e forma.
Come già accennato, l'opera di Manzoni è stata tra gli oggetti di polemica riguardo l'esistenza di una linea che collega la critica di Francesco De Sanctis a quella di Gramsci; parallelamente, Natalino Sapegno[17], in contrasto con il giudizio limitativo della critica coeva, sostiene che Gramsci sia interessato, pur sulle orme critiche di De Sanctis, alla letteratura di Manzoni per l'importanza che esso ha all'interno di uno studio sulla creazione di una letteratura popolare-nazionale e dunque di un pubblico, così come per la ricostruzione della storia degli intellettuali. Carlo Salinari affermando Il ritorno di De Sanctis[18] con la ripubblicazione dei Saggi critici[19], nota l'esigenza del critico irpino di ricercare «la situazione in cui si pone l'artista nel momento in cui concepisce la sua opera»[20] e per ritrovare il legame tra la cultura e la vita nazionale ha maggior senso lo sviluppo di un legame De Sanctis-Gramsci piuttosto che quello tradizionale De Sanctis-Croce. Infine, autorevolmente, ma un po’ stancamente, Benedetto Croce[21] risponde a Salinari respingendo l'idea di un legame tra De Sanctis e Gramsci in quanto è la costruzione di una parte politica volta a far diventare il De Sanctis un marxista. Ad inserirsi nella polemica è Valentino Gerratana[22], propenso all'interpretazione di Salinari, spiega come Croce pervenga ad un’interpretazione non autentica del pensiero di De Sanctis, colto invece da Gramsci nella fusione tra giudizio artistico e morale, attraverso Gramsci il materialismo storico incontra il De Sanctis e fa sua la critica militante. Tra il 1955 e il 1956 ancora le note su Manzoni sono spunto per la critica letteraria ai Promessi sposi: Angelo Romanò[23], pur negando l'utilità dei frammenti gramsciani per un esame concreto di temi e testi manzoniani e indicando l'indecisione del Sardo tra due diversi tipi di indagine (la critica artistica pura o la storia della cultura), nel 1956 pubblica un saggio che analizza, segue e sviluppa le letture che servirono a Gramsci nei riferimenti a Manzoni; Arturo Lazzari[24] sul tema degli umili, toccato già da Romanò in un confronto con la critica coeva, riporta, per i lettori de «Il Calendario del Popolo», il pensiero di Gramsci sul rapporto paternalistico di Manzoni verso il popolo.
Nonostante i limiti riconosciuti all'atteggiamento di Manzoni nei confronti del popolo riconosciuti da Gramsci, è lontana l'interpretazione della letteratura al suo atteggiamento politico-ideologico, che impedisce «di distinguere gli scrittori autentici dai semplici "untorelli"»[25], «I nipotini di padre Bresciani», del cui concetto, «brescianesimo», si occupa Giuseppe Valentini[26], direttore della rivista gesuita «Letture», ripreso nel significato di tendenziosità clericale, imputabile a quella letteratura che non contribuisce alla costruzione del socialismo.
Dei rapporti tra la critica e l'engagement accenna ancora Adriano Seroni riprendendo lo studio del De Sanctis su Zola, quando, nell'ultimo periodo della sua vita lamenta l’apatia della cultura italiana postunitaria; Seroni indica «quanto giusta e profonda fosse l’intuizione di Gramsci allorché egli parlava di appassionato fervore e di partigianeria della critica di De Sanctis»[27].
Sugli interessi letterari di Gramsci, nel suo periodo universitario, ci dà una testimonianza Ezio Bartalini[28] quando ricorda il metodo di studio e la passione di Gramsci per la spregiudicatezza e modernità dei carmi di Catullo (Liber e La chioma di Berenice), nonché per le vicende storiche e politiche del poeta.
Nel 1953, a prendere l'intera pagina di una rivista minore è una lettera di Gramsci (datata 8 settembre 1922 e allora inedita in Italia), che su richiesta di Trockij descrive le caratteristiche artistiche del movimento futurista ed il rapporto con il movimento operaio.
Ancora del 1953 è il lavoro di Leonardo Sciascia su Pirandello[29] in cui appare Gramsci, studioso libero non «nel pensare politico soltanto, ma nella più ampia e sconfinata libertà intellettuale»[30] che gli ha permesso di capire l'influenza dell'ermeneutica tilgheriana sullo scrittore agrigentino e di leggerne l'opera come proveniente da un'esperienza storicamente viva.
Dal folklore alla letteratura popolare-nazionale[31]
Ernesto De Martino, dopo l’articolo Gramsci e il folklore[32], in cui sono presentate le nuove condizioni politiche portate dalla Resistenza come un primo passo verso una cosciente prospettiva di studio sul folklore da parte delle masse, inaugura una discussione su «La Lapa», dedicata agli studi etnologici, auspicando un proficuo periodo di studi sul folklore, radicati nella tradizione storicistica nazionale; Paolo Toschi[33] interviene sulla stessa rivista negando che l’asse proposto da De Martino (De Sanctis-Croce-Gramsci) abbia un comune e preciso indirizzo metodologico, alludendo ad una rosa di etnologi italiani di cui si dovrebbe invece tener conto. Lateralmente, in questo dibattito s’inserisce anche Giuseppe Petronio[34] che, sostenendo la necessaria storicizzazione del crocianesimo, appoggia il presupposto gramsciano di una produzione letteraria di classe, ed in questa prospettiva l’immobilità delle classi subalterne rispetto «ai grandi moti di cultura delle élites»[35]. Lo scritto di Giovanni Giarrizzo, Moralità scientifica e folklore[36], confuta rigorosamente l’analisi gramsciana: inaccettabile per la metodologia etnologica è partire dagli apriorismi marxisti che snaturano la produzione di una stessa società in un dualismo classista: una metodologia inficiata da presupposti politici.
In Religione popolare e storicismo[37], Vittorio Lanternari critica il Giarrizzo: spiega minuziosamente i termini usati da Gramsci, non fermandosi alle formalità lessicali che avrebbero ingannato il Giarrizzo e si appoggia a De Martino ritrovando nella resistenza culturale delle masse subalterne una forza operante o, come espresso da uno studioso gramsciano contemporaneo, una «forza progressiva»[38], nella dialettica storica.
La più asciutta e organica comprensione delle riflessioni gramsciane sul folklore è rintracciabile in Pier Paolo Pasolini, sicuramente non all’oscuro delle discussioni etnologiche come di quelle letterarie; egli, nell’introduzione a Canzoniere italiano[39], conclude che l’interesse di Gramsci non fosse rivolto alla letteratura popolare in sé, bensì alle implicazioni politiche dello scontro tra le due culture, ufficiale e popolare, le reciproche influenze, le conseguenze politiche.
Dal folklore alla questione meridionale
È il 1954 quando Mario Alicata scrive Il meridionalismo non si può fermare ad Eboli[40], un saggio sull'opera di Rocco Scotellaro[41], in cui è criticata l'opera di Carlo Levi che, pur col merito d'aver popolarizzato il problema meridionale, non può dare strumenti utili per individuare le forze storiche risolutive della questione meridionale, anzi, proprio quella visione poetica di un Mezzogiorno «fuori del tempo e della storia»[42] ne spezza i legami col resto del mondo e ne cancella le contraddizioni ed il processo di sviluppo della società meridionale aprendo la strada a teorie fantasiose (e qui Alicata indica l'opera di Gianni Baget Bozzo e Manlio Rossi-Doria). In questo contesto è ricordato l'insegnamento gramsciano che indicherebbe l'esigenza di studiare il folklore come concezione del mondo, implicita, di determinati strati della società in contrapposizione con le concezioni «ufficiali» e non dunque come un elemento pittoresco: Alicata più avanti si rifà ad un precedente saggio di Vittorio Santoli[43] ed indica le considerazioni metodologiche e le spiegazioni tratte dalle note carcerarie.
La questione meridionale
Questione meridionale e unità nazionale in Gramsci è il titolo del saggio di Franco Ferri[44] in cui Gramsci è indicato come il primo marxista italiano a prospettare la rivoluzione proletaria come compito nazionale, e dunque non corporativistico, per risolvere le contraddizioni che minano la società. Mario Gallo[45], proponendo tre profili di intellettuali del sud, premette, seguendo la teoria gramsciana, alcune considerazioni sulla rottura del blocco agrario meridionale attraverso la presa di coscienza degli intellettuali, gli intermediari organizzativi tra la classe contadina e l'amministrazione generale.
Un leader politico come Giorgio Napolitano[46], occupandosi di strategia politica diretta, critica i coevi provvedimenti statalisti e indica nella direzione teorica posta da Gramsci una via per ripensare l'azione sul mondo contadino del Sud, in vista della costituzione di un grande movimento popolare meridionale alleato al movimento operaio del Nord.
In occasione del XV anniversario della morte di Gramsci, «L'Unità» romana pubblica un articolo di Franco Ferri[47] in cui è sottolineato il merito del Sardo di aver reso nazionale nel suo contenuto l'ideologia della classe proletaria, mentre dalle colonne dell'edizione piemontese Mario Alicata nota come la questione meridionale non sia più «retaggio di pochi studiosi, ma impegno di lotta delle grandi masse popolari del sud e del nord»[48]; ancora Sergio Cavina[49] torna sull'unità nazionale e sulla popolarizzazione cosciente dei termini gramsciani della questione meridionale.
Alberto Caracciolo[50] auspica che storiograficamente si percorra la strada indicata da Gramsci per ritrovare la centralità delle classi subalterne nella storia, seguendo cioè l’orientamento contadino durante la rivoluzione liberale e borghese nelle singole regioni ed evitando la genericità con approfondimenti nella documentazione e nell’interpretazione.
In un contributo critico sull'indifferenza storiografica e l'ostilità politica di Croce per le classi subalterne, il solito Alicata[51], voce ufficiale della politica culturale del pci, riconosce, nello sviluppo teorico delle differenti impostazioni date alla questione meridionale in rapporto all'opera di Croce, un passaggio fondamentale con l'analisi gramsciana che giudica i problemi del Mezzogiorno centrali per la classe operaia stessa.
Tre anni dopo questi interventi Francesco Compagna pubblica una monografia sulla cultura e la politica nel Mezzogiorno[52], in cui La questione meridionale di Gramsci è ridotta a interpretazione del pensiero di Guido Dorso o completamento di quello di Gobetti, non senza la mediazioni di Croce.
Ci si comincia ad allargare ad ambiti anche extrapolitici, extrafilosofici, extrastoriografici e persino extraletterari, nell’attenzione critica a Gramsci. Uno specialista di drammaturgia quale Vito Pandolfi raccoglie le impressioni di Gramsci sul teatro di Pirandello[53], seppur fermo per il limite oggettivo della reclusione, all'origine dell'opera Pirandello (su Liolà è infatti concentrata la sua attenzione); Gramsci constata «il rapporto tra Pirandello e le tradizioni popolari nazionali, il rispecchiarsi nella sua opera delle contraddizioni esistenti nella coscienza delle classi italiane tra un’impostazione fortemente provinciale, una aspirazione europeistica su un piano puramente astratto, e una realtà nazionale concretantesi da poco e malamente, e ormai già prossima allo sfacelo»[54].
Passando al cinema, Ferdinando Rocco denuncia il disinteresse per la decima Musa che emerge dalle critiche teatrali giovanili di Gramsci, in cui è negato il valore d'arte al cinema, per passare ai giudizi più impegnativi contenuti in Letteratura e vita nazionale[55], dove c'è già, «in embrione, il tentativo di comprendere, da un punto di vista culturale, l’influenza del cinema sul pubblico»[56] con dei riferimenti all'innovazione linguistica portata alle masse dal linguaggio cinematografico e al significato di costume esplicitato da Gramsci con la relazione tra la narrativa popolare ed il film.
Intanto emerge su una posizione di tutto rilievo il pedagogismo gramsciano. Vengono per esempio enucleati e raccolti i pensieri dedicati dal prigionero ai figli nelle Lettere dal carcere, in cui sono contenute importanti lezioni pedagogiche e le considerazioni filosofico-pedagogiche dei Quaderni su Rousseau, sui metodi educativi delle scuole italiane nel passaggio alla Riforma Gentile e sulle scuole progressiste d'Europa.
Rimane, tuttavia, centrale, la questione della fabbrica, che alla lunga emergerà come la questione per antonomasia, in Gramsci. Nel periodo preso in esame, quello di Fazio Fabbrini[57] è l'unico contributo di carattere specificamente tecnico che sia stato scritto sulla base delle riflessioni contenute in Americanismo e fordismo[58]. Fabbrini vi descrive il sistema di produzione taylorista, i fenomeni dell'«aziendalismo», del «tecnicismo» e l'idea delle «relazioni umane», rimedi temporanei «per ricongiungere idealmente l'operaio all'azienda»[59]. L'autore è critico verso la dissuasione delle masse dalla lotta per le trasformazioni strutturali attraverso l'idea dell'americanismo come panacea di tutti i mali, per questo, riportando le riflessioni gramsciane, rileva come la struttura economica, sociale e demografica d'Italia non permetta un uguale sviluppo dell'americanismo.
In polemica con la cultura italiana coeva permeata dal mito tecnocratico americano, Giuseppe Conti[60] ripercorre i motivi delle note carcerarie riguardanti l'organizzazione tecnica di differenti contesti sociali, per dimostrare l'esistenza, anche da parte marxista, di un'avanzata elaborazione.
Mario Montagnana[61] sostiene che agli obiettivi del sindacato, nella fase coeva di maggior coscienza dei lavoratori, deve aggiungersi la lotta per l'aumento della produzione e in questa direzione sono riprese le riflessioni carcerarie e l'esperienza ordinovista di Gramsci.
Il peso del marxismo in versione leninista e stalinista non accenna a diminuire, intanto: Mario Spinella[62], ad esempio, descrive la visione gramsciana, in sostanziale identità con il pensiero di Lenin e Stalin, del sistema dei «quadri» come un elemento fondamentale dell'esperienza bolscevica, educati da un partito organizzatore, risolvendo il problema della libertà e democrazia con «il processo di intima liberazione per cui l'operaio da esecutore diviene iniziatore, da massa diviene capo e guida»[63]. Alla preparazione ideologica, esigenza cui gli scritti gramsciani danno una risposta, deve seguire, secondo Gramsci, la disciplina politica socialista, che a differenza di quella borghese è autonoma e spontanea.
Ma si fanno luce anche letture più articolate e complesse. Furio Diaz in un denso saggio intitolato Il senso del pericolo[64] affronta alcune situazioni storiche, dal Risorgimento fino all'attualità, attraverso le categorie gramsciane di guerra di posizione e di movimento e, facendo riferimento ai termini marxiani di pericolo acuto e pericolo cronico, spiega le reazione sociali che queste scatenano.
Insomma, i titoli, verso la metà degli anni Cinquanta sono abbondanti, tanto che, nella rassegna di Nicola Matteucci, La cultura italiana e il marxismo dal 1945 al 1951[65], Gramsci appare, con Labriola e Mondolfo, tra le fonti precipue cui attingere per sviluppare il marxismo italiano.
Il che non significa un riconoscimento automatico, né pieno del ruolo gramsciano. Una piccola polemica[66] tra Franco Calamandrei e Guido Calogero mostra come l'Istituto di cultura italiana a Londra sia molto cauto sulla popolarizzazione della figura di Gramsci in Inghilterra, nonostante il pubblico d'oltremanica abbia apprezzato l'ampio esame dedicato all'opera del Sardo dal «Literary Supplement» del «Times».
Si apre con la lettera di Onofri[67] il breve dibattito per una ricerca collettiva sull'influenza di Gramsci nella cultura italiana, cui Ingrao[68] risponde puntualizzando che lo studio debba essere mirato, condotto sugli specifici temi gramsciani. Raimondo Massari[69], in contrasto con l'opinione di Onofri di una coincidenza tra storia del pci e sviluppo dell'opera di Gramsci, ritiene sia necessario staccare il periodo che segue il 1923 dall'identità con il partito.
In occasione della imminente presentazione delle Lettres de la prison, tradotte da Jean Noaro che le recensì in Francia sin dal 1947, Giuseppe Carbone[70] intende dimostrare polemicamente che, contrariamente alle convinzioni di Aldo Garosci, Angelo Tasca e altre opinioni apparse in riviste minori, la pubblicazione dell'opera di Gramsci è in corso e non solo in Italia.
Federico Mancini e Nicola Matteucci ritengono che la rivista «Terza Generazione», pur aspirando a proporre un nuovo orizzonte critico indipendente da schieramenti e ispirandosi, tra gli altri, a Gramsci, tradisce già quest'ultimo nella deriva retorica provinciale del primato italiano, lontana dall'idea dei compiti storici affidati dal Sardo alle masse operaie e contadine.
Il futuro editore dei Quaderni, Valentino Gerratana[71], con un rapido riferimento al dibattito innescato da Rosario Romeo[72], sostiene si stia per entrare in una nuova fase dell'influenza di Gramsci nella cultura italiana, la citazione dei temi ripercorsi dalla cultura italiana come un patrimonio comune, dunque non di una sola parte politica, sono esempi ripresi da Gerratana per dimostrare come la linea crociana di usare il «pregiudizio politico» come «canone di giudizio culturale»[73] non sia stata seguita dalla riflessione nazionale.
Alfredo Azzaroni[74] riconosce nell'opera di Gramsci e Gobetti la traccia per le direttive culturali da prendere dopo la Resistenza, ma conclude con un bilancio negativo sull'inveramento di quelle istanze.
Ma non mancano nemmeno le opere creative ispirate a Gramsci. Dopo la poesia di Velso Mucci[75] dedicata agli anni ordinovisti di Gramsci, Bruno Torcicoda[76] si cimenta in una sceneggiatura che segue tutto il percorso biografico del Sardo. Infine, nel 1955 Pier Paolo Pasolini pubblica la prima stesura[77] della lirica che darà il titolo alla raccolta Le ceneri di Gramsci[78], uno dei suoi testi più significativi.
Non mancano anche i bilanci e i contributi bibliografici. Ad esempio, all'elenco[79] dei libri posseduti da Gramsci, Giuseppe Carbone premette una descrizione dei siti in cui si trovavano e dà notizia della modifica, nata dall'azione tenace di Gramsci, al regolamento carcerario entrato in vigore il 18 giugno 1931 che aboliva ogni esclusione predeterminata di libri e giornali politici per i condannati. Dal canto loro, due sconosciuti, Giovanni Bollino e Enrico Califano[80], compilano una bibliografia degli articoli e saggi riguardanti o collegati alla storia del pci ed in cui spesso compaiono contributi su Gramsci, apparsi in periodici tra la fine del 1950 e del 1951, una nota introduttiva spiega la metodologia e lo schema di suddivisioni adottati; è anche riportato un succinto regesto delle pubblicazioni monografiche per il periodo esaminato.
Alla vigilia della pubblicazione della sua monografia, Vita del carcere di Antonio Gramsci, Domenico Zucàro redige una breve rassegna[81] degli scritti inediti gramsciani e dei contributi volti a dare nuovi elementi di natura biografica pubblicati nel biennio 1951-1952.
L’esigenza di un bilancio sistematico degli studi gramsciani, che anima anche questo modesto lavoro, evidentemente viene da molto lontano.
[1] Federico Chabod, Croce storico, in «Rivista Storica Italiana», LXIV, 1952, p. 521 (->52.08).
[2] Cfr. Domenico Novacco, Adolfo Omodeo, il marxismo e la storia del Risorgimento, in «Belfagor», XI, 1956, pp. 183-90 (->56.13).
[3] Cfr. Leo Valiani, La storia del movimento socialista in Italia dalle origini al 1921. Studi e ricerche nel decennio 1945-1955, in «Rivista Storica Italiana», LXVIII, 1956, pp. 447-510 (->56.21).
[4] Cfr. Rosario Romeo, La storiografia politica marxista, in «Nord e Sud», II, 1956, n. 21 e 22, pp. 5-37 e 16-44 (->56.19).
[5] Ivi, p. 33.
[6] Cfr. Rosario Villari, Questione agraria e sviluppo del capitalismo nel Risorgimento, in «Cronache Meridionali», III, 1956, pp. 536-542 (->56.23).
[7] Cfr. Rosario Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari, Laterza, 1950, p. 422.
[8] Cfr. Luciano Cafagna, Intorno al «revisionismo risorgimentale», in «Società», XII, 1956, pp. 1015-35 (->56.12).
[9] Cfr. Giorgio Candeloro, Nota bibliografica, in Storia dell’Italia moderna, Feltrinelli, Milano 1956, vol. I, Le origini del Risorgimento, pp. 388-394 (->56.08).
[10] Cfr. Costanzo Casucci, Caporetto, in «Lo Spettatore Italiano», VIII, 1955, pp. 498-504 (->55.15).
[11] Cfr. Carlo Salinari, Marxismo e critica letteraria in un libro di Lukács, in «Rinascita», X, 1953, pp. 620-624 (->53.20).
[12] Cfr. Pier Luigi Contessi, Questioni di estetica e materialismo dialettico, in «Il Mulino», III, 1954, pp. 408-22 (->54.08).
[13] Cfr. Giorgio Bárberi Squarotti, Critica ermetica e critica marxista, in «Lettere Italiane», VIII, 1956, pp. 153-182 (->56.11).
[14] Cfr. Odoardo Strigelli, Il canto di Farinata dopo gli appunti di Gramsci, in «Inventario», IV, 1952, pp. 97-104 (->52.22).
[15] Cfr. Cesare Garboli, Struttura e poesia nella critica dantesca contemporanea, in «Società», VIII, 1952, pp. 20-44 (->52.15).
[16] Cfr. Della Volpe, Antonio Gramsci e l’estetica… cit. (->53.11).
[17] Cfr. Natalino Sapegno, Manzoni tra De Sanctis e Gramsci, in «Società», VIII, 1952, pp. 7-19 (->52.21).
[18] Cfr. Carlo Salinari, Il ritorno di De Sanctis, in «Rinascita», IX, 1952, pp. 289-292 (->52.20).
[19] Cfr. Francesco De Sanctis, Saggi critici, a cura di Luigi Russo, Bari, Laterza, 1952, 3 vv., LII-374, VIII-407, VIII-375.
[20] Salinari, Il ritorno… cit., p. 292 (->52.20).
[21] Cfr. Benedetto Croce, De Sanctis-Gramsci?, in «Lo Spettatore Italiano», V, 1952, pp. 294-296 (->52.09).
[22] Cfr. Valentino Gerratana, De Sanctis-Croce o De Sanctis-Gramsci? Appunti per una polemica, in «Società», VIII, 1952, pp. 497-512 (->52.16).
[23] Cfr. Angelo Romanò, Gramsci, Manzoni…cit. (->55.24) e Id., Manzoni visto… cit. (->56.18).
[24] Cfr. Arturo Lazzari, Manzoni e gli umili, in «Il Calendario del Popolo», XI, 1955, p. 2166 (->55.20).
[25] Marina Paladini Musitelli, Brescianesimo, in Liguori, Le parole… cit., p. 49.
[26] Cfr. Giuseppe Valentini, Brescianesimo, in «Letture», VII, 1952, pp. 61-64 (->52.24).
[27] Cfr. Adriano Seroni, De Sanctis, Zola… cit., p. 496 (->53.21).
[28] Cfr. Ezio Bartalini, Gramsci e Catullo, in «Il Paese», 30 aprile 1953 (->53.29).
[29] Cfr. Leonardo Sciascia, Pirandello e il pirandellismo. Con lettere inedite di Pirandello a Tilgher, Caltanissetta, Edizioni Salvatore Sciascia, 1953 (->53.01).
[30] Ivi, p. 64.
[31] Faccio riferimento al termine «popolare-nazionale» secondo le accezioni di Marina Paladini Musitelli, Brescianesimo e Lea Durante, Nazionale-popolare, in Liguori, Le parole… cit., pp. 48 e 159-161.
[32] Cfr. Ernesto De Martino, Gramsci e il folklore, in «Il Calendario del Popolo», VIII, n. 91, 1952, p. 1109 (->52.10).
[33] Cfr. Paolo Toschi, Sugli studi di folklore in Italia, in «La Lapa», I, 1953, p. 23-24 (->53.23).
[34] Cfr. Giuseppe Petronio, Limiti del crocianesimo, in «La Lapa», II, 1954, p. 15 (->53.19).
[35] Ivi, p. 15
[36] Cfr. Giovanni Giarrizzo, Moralità scientifica e folclore, in «Lo Spettatore Italiano», VII, 1954, pp. 180-184 (->54.13).
[37] Cfr. Vittorio Lanternari, Religione popolare e storicismo, in «Belfagor», IX, 1954, pp. 675-81(->54.15).
[38] Liguori, Gramsci conteso, cit., p. 70
[39] Cfr. Pier Paolo Pasolini, I. Un secolo di studi sulla poesia popolare, in Introduzione a Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare, Parma, Guanda, 1955, pp. XXVII-XXX (->55.10); opera «ignorata» dai «letterati del "Contemporaneo"» secondo l'opinione di Italo Calvino, cfr. Nello Ajello, Intellettuali e PCI. 1944-1958, Roma-Bari, Laterza, 1979, p. 387.
[40] Cfr. Mario Alicata, Il meridionalismo non si può fermare ad Eboli, in «Cronache Meridionali», II, 1954, pp. 585-603 (->54.05).
[41] Sui rapporti del pci con le interpretazioni e l'opera di Scotellaro, cfr. Ajello, Gli scomunicati: da Scotellaro a De Martino, in Id., Intellettuali e PCI..., cit., pp. 333-340.
[42] Alicata, Il meridionalismo… cit., p. 595 (->54.05).
[43] Cfr. Vittorio Santoli, Tre osservazioni su Gramsci e il folclore, in «Società», VII, n. 3, 1951, pp. 390-397 (->51.08).
[44] Cfr. Franco Ferri, Questione meridionale e unità nazionale in Gramsci, in «Rinascita», IX, 1952, pp. 6-10 (->52.12).
[45] Cfr. Mario Gallo, Suolo e sottosuolo nell'intellettuale del Sud, in «Mondo Operaio» [Roma], V , n. 4, 16 febbraio 1952, pp. 19-21 (->52.14).
[46] Cfr. Giorgio Napolitano, Il dibattito meridionalista dopo la Liberazione, in «Società», VIII, 1952, pp. 97-129 (->52.19).
[47] Cfr. Franco Ferri, I Quaderni hanno spezzato il blocco ideologico del Meridione. Antonio Gramsci e la nuova cultura, in «L’Unità» [ed. romana], XXIX, n. 101, 27 aprile 1952, p. 3 (->52.51).
[48] Cfr. Mario Alicata, Gramsci e il Mezzogiorno, in «L’Unità» [ed. piemontese], XXIX, n. 101, 27 aprile 1952, p. 1 (->52.48).
[49] Cfr. Sergio Cavina, Antonio Gramsci e la questione meridionale ieri e oggi. Conferenza tenuta dal compagno Sergio Cavina della Segreteria della Federazione del P.C.I. di Ravenna, (Cinema Astra – Ravenna - 5 maggio 1952), per celebrare il XV anniversario della morte di Antonio Gramsci, edizione speciale dell'«Eco di Romagna», n. 1, 21 maggio 1952 (->52.29).
[50] Cfr. Alberto Caracciolo, Per una storia del movimento contadino in Italia, in «Società», VIII, 1952, pp. 469-96 (->52.34).
[51] Cfr. Mario Alicata, Benedetto Croce e il Mezzogiorno, in «Rinascita», IX, 1952, pp. 680-84 (->52.04).
[52] Cfr. Francesco Compagna, Labirinto meridionale (Cultura e politica nel Mezzogiorno), Venezia, Neri Pozza, 1955 (->55.02).
[53] Cfr. Vito Pandolfi, Gramsci e Pirandello, in Spettacolo del secolo. Il teatro drammatico, Pisa, Nistri-Lischi, 1953, pp. 209-22 (->53.04).
[54] Ivi, p. 216
[55] Cfr. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1950.
[56] Cfr. Ferdinando Rocco, Gramsci e il cinema, in «Rivista del Cinema Italiano», III, 1954, pp. 29-33 (->54.23).
[57] Cfr. Fazio Fabbrini, L'importazione dell'americanismo e sue conseguenze per l'operaio. Rileggendo «Americanismo e fordismo», in «Rinascita», XII, 1955, pp. 617-620 (->55.16).
[58] Cfr. Antonio Gramsci, Americanismo e fordismo, a cura di Felice Platone, Milano, Feltrinelli, 1950.
[59] Ivi, p. 618.
[60] Cfr. Giuseppe Conti, La tecnica e l'uomo, in «Incontri Oggi», II, 1954, pp. 5-8 (->54.09).
[61] Cfr. Mario Montagnana, I compiti del movimento sindacale nell'attuale periodo, in «Rinascita», XI, 1952, pp. 341-344 (->52.18).
[62] Cfr. Mario Spinella, Il problema dei quadri nei «Quaderni del carcere», in «Rinascita», X, 1953, pp. 162-166 (->53.22).
[63] Ivi, p. 164.
[64] Cfr. Furio Diaz, Il senso del pericolo, in «Rinascita», IX, 1952, pp. 487-491 (->56.04).
[65] Cfr. Nicola Matteucci, La cultura italiana… cit. (->54.13).
[66] Cfr. Franco Calamandrei, Guido Calogero, La conoscenza di Gramsci in Inghilterra. Una lettera di Guido Calogero e una nota di Franco Calamandrei, in «L'Unità» [ed. romana], XXX, n. 21, 24 gennaio 1953 (->53.32).
[67] Cfr. Fabrizio Onofri, Gramsci e la cultura italiana, in «Rinascita», X, 1953, pp. 507-509 (->53.15).
[68] Cfr. Pietro Ingrao, Gramsci e la cultura italiana, in «Rinascita», X, 1953, pp. 570-571(->53.12).
[69] Cfr. Raimondo Massari, Gramsci e la cultura italiana, in «Rinascita», X, 1953, p. 635 (->53.13).
[70] Giuseppe Carbone, Gramsci in francese cit. (->53.33).
[71] Cfr. Valentino Gerratana, L’opera di Gramsci nella cultura italiana, in «Rinascita», XI, 1954, pp. 749-753 (->54.12).
[72] Cfr. Romeo, Rosario, La storiografia politica… cit. (->56.17), il dibattito è ripreso sopra, nella parte dedicata alla storiografia sul Risorgimento.
[73] Ivi, p. 753.
[74] Cfr. Alfredo Azzaroni, Cultura e resistenza, in «Mondo Operaio», VIII, 1955, pp. 12, 17-19 (->55.14).
[75] Cfr. Velso Mucci, Ricordo... cit. (->53.41).
[76] Cfr. Bruno Torcicoda, Detenuto politico 7047. 4 atti per il teatro di massa, Siena, Stabilimento tipografico combattenti, 1953 (->53.42).
[77] Cfr. Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, in «Nuovi Argomenti», III, nn.17-18, 1955-1956, pp. 72-82 (->55.42); per Italo Calvino questa poesia rappresenta «uno dei più importanti fatti della letteratura italiana del dopoguerra e certo la più importante nel campo della poesia», crf. Ajello, Intellettuali… cit., p. 387.
[78] Id., Le ceneri di Gramsci. Poemetti, Milano, Garzanti, 1957,
[79] Cfr. Giuseppe Carbone, I libri del carcere di Antonio Gramsci, in «Movimento Operaio», IV, 1952, pp. 640-689 (->52.59).
[80] Cfr. Giovanni Bollino, Enrico Califano, Articoli e pubblicazioni sui trenta anni del P.C.I., in «Movimento Operaio», IV, 1952, pp. 979-1023 (->52.60).
[81] Cfr. Domenico Zucàro, Contributi alla biografia di Antonio Gramsci, in «Movimento Operaio», V, 1953, pp. 900-903 (->53.43).