La Festuca

Firmato: Raksha; "Il Grido del Popolo", n. 594, " dicembre 1915, nella rubrica "Figure e figuri". Nuova attribuzione.

Ho assistito ad una seduta del Consiglio comunale e ne sono uscito disgustato e intenerito. La figura del sindaco[1] grande, grosso, trasudante da tutti i pori, con gli occhi semichiusi come per un pisolino dopo una digestione laboriosa, mi si è conficcato nel cervello e mi perseguita solleticandomi al riso con tutti i nervi del mio organismo. Mi immagino questo illustre infelice, determinato dal suo ambiente a una leggera e bonaria mania malinconica ripetere all'infinito: Chi approva, alzi la mano; è approvato; e anche il mio cuore felino sente l'intenerimento.
Intorno a lui che miseria di flaccidità, di mancanza di carattere, di ottusità d'idee. Accolta di galantuomini venutisi a incontrare, o meglio, a scontrare, sotto lo stimolo della paura di Barbarossa[2] che nelle giornate di giugno incombeva su Torino, senza programma, senza idee, senza unità d'intenti se non quello di: purché non vincano i socialisti, non fa meraviglia che ormai, venuta a mancare la fiamma che per un* momento li amalgamò, sentano la stanchezza della loro situazione, la sconcezza di certi accostamenti, la insostenibilità di certe alleanze. Ma sono flaccidi, sono vili, non vogliono arrivare alle ultime conseguenze, non vogliono dare una soddisfazione agli avversari, confessare la loro organica incapacità ad amministrare un Comune come Torino, e preferiscono dare tempo al tempo, lasciare che i fatti maturino da sé e scoppino nell'imprevisto: iddio poi ci penserà.
In questo caos di incertezze e di velleità indecise, galleggia, povera festuca, l'eterna, ingenua innocenza del collezionista di decorazioni, che rotea intorno placidamente i suoi occhi di vaccina condannata al macello, e teme solo di essere defraudata nella sua innocua mania. Ma decidetevi dunque una buona volta: inchiodatela, questa onesta vescica di sugna inacidita, all'insegna di un qualche salumaio, per che testimoni della genuinità della sua mercanzia, restituite agli esercenti il loro sindaco, e cessate di fare intenerire il cuore degli spettatori per la sua sorte di un infelice condannato per una sua innocente mania a una terribile punizione: a dover girare per le sale del suo palazzo, col petto ornato di dischetti di vario metallo, in preda a pazzia malinconica, osannante monotonamente: Chi approva, alzi la mano; è approvato! Chi approva, alzi la mano; è approvato!

[1]    II conte Teofilo Rossi di Montelera (1865-1927), deputato e senatore, proprietario di una industria vinicola, la "Martini e Sola", poi divenuta "Martini e Rossi"; eletto sindaco di Torino nel 1910, era stato confermato nella carica dopo le elezioni municipali del 14 giugno 1914.
[2]    Cioè Benito Mussolini, leader dei socialisti rivoluzionari (cfr. Apprezzamenti di utilità, in "Avanti!", ed. piemontese, i° novembre 1920, Feria verità, 125-26: "Sette anni or sono la "Stampa" [...] aveva un Barbarossa da far apparire minacciosa dinanzi alla interrorita borghesia torinese: Barba-rossa erano sette anni or sono Mussolini e Scalarmi").


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