La luce che si è spenta
Alfa Gamma; «Il Grido del Popolo», n. 591, 20 novembre 191.5. Raccolto in SG, 10-12.
Ricordo un povero ragazzo che non aveva potuto frequentare i dotti banchi delle scuole del suo paese per la salute malferma, e si era da se stesso preparato per l'esame, ahimè quanto modesto, di proscioglimento. Ma quando sparuto si presentò al maestro, al rappresentante della scienza ufficiale, per consegnargli la domanda vergata, per far colpo, nella più bella calligrafia, questi, guardandolo attraverso i suoi scientifici occhiali, domandò arcigno: «Si, va bene, ma credi che sia cosi facile l'esame? Conosci per esempio gli 84 articoli dello Statuto? » E il povero ragazzo, schiacciato da quella domanda, si mise a tremare, piangendo sconsolatamente ritornò a casa e per allora non volle dar l'esame[1].
Perché mi fiorisce nella memoria questo aneddoto ora che vorrei ricordare per i lettori del «Grido» la figura di Renato Serra[2]? Perché troppi maestri mi pare ci siano come quello che ho su ricordato, e ad essi il Serra ha dato una lezione di umanità; in ciò egli ha veramente continuato Francesco De Sanctis, il più grande critico che l'Europa abbia mai avuto.
Pensate a ciò che nel Medioevo rappresenta il movimento francescano di fronte al teologismo dottrinario della Scolastica. La teologia era pan degli angeli, non dei miseri mortali, eppure essa aveva invaso tutte le manifestazioni religiose, anche la predicazione al popolo: Dio spariva dietro i sillogismi, snebbiava lontano o gravava sulle coscienze come qualcosa di enorme, di schiacciante. L'intelletto aveva ammazzato il sentimento, la riflessione occhialuta aveva strangolato lo slancio della fede[3]. Venne san Francesco, anima umile, dimessa. Spirito semplice, soffiò via tutti gli involucri cartacei, pergamenacei che avevano straniato Dio dagli uomini, e fece rinascere in ogni animo la divina ebbrezza. Cosi hanno fatto il De Sanctis e il Serra per la poesia. La poesia era diventata privativa dei professori: Dante per esempio era stato o trasumanato oppure i suoi libri si presentavano circondati da reticolati irti di spine erudite e di sentinelle che urlavano il «chi va là? » a ogni profano che osasse avvicinarsi troppo; cosi si è formata nei più la convinzione che Dante sia come una torre impenetrabile ai non iniziati. Il De Sanctis non è di questi: non domanda a uno che ha la buona volontà se conosce gli 84 articoli dello Statuto: anzi se vede una faccia sparuta, se vede un umile ritirarsi indietro quasi spaventato di troppo osare, gli si fa da presso, quasi direi lo prende a braccetto, con espansione tutta napoletana, lo guida lui, gli dice: «Vedi, ciò che credevi difficile non lo è, oppure non merita la pena d'esser letto; salta a pie pari queste siepi, lascia che altre mascelle si facciano sanguinare le gengive a rodere quei cardi». Renato Serra mostra che i professori, che i critici di professione hanno presa per arte ciò che era pura e semplice tappezzeria. Questi due uomini sono stati veramente maestri, come intendevano i greci, cioè mistagoghi, ma hanno iniziato ai misteri mostrando che questi misteri sono vane costruzioni di letterati, e che tutto è chiaro, limpido per chi ha l'occhio puro e vede la luce come colore e non come vibrazione di ioni ed elettroni. Essi sono collaboratori della poesia, lettori della poesia. Ogni loro saggio è una nuova luce che s'accende per noi. Ci sentiamo come assorbiti in un incanto. Il mondo che ci circonda non arriva più ai nostri sensi, non li stimola a reagire. Non esiste che l'opera d'arte, noi e il maestro che ci guida. La nostra umanità è tutta tesa al bello e solo questo sente. La presa di possesso è rapida, immediata. È un uomo che si avvicina ad un altro uomo e lo sente rivivere in sé come tale e poi come creatore di bellezza. La parola non è più elemento grammaticale, da casellare in regole e in ischemi libreschi; è un suono, è una nota di un periodo musicale che si snoda, si riprende, si amplia in volute leggere, aeree che ci conquistano lo spirito e lo fanno vibrare all'unisono con quello dell'autore. Le immagini vivono una loro vita propria, stimolano le nostre facoltà creative, agitano tutto il mondo delle nostre esperienze, destano echi lontani di cose passate che si rinnovano e si affermano vigorose nell'atto del nostro leggere. Noi vibriamo in tutte le fibre del nostro essere, ci sentiamo purificati da questa fusione con un altro essere che ci ha scossi, che ci ha fatto partecipare alla sua vita, che ci ha dato l'illusione di essere noi i creatori di quelle armonie, tanto le sentiamo nostre, e sentiamo che mai più cesseranno di far parte del nostro spirito.
Dopo una di queste letture ci sentiamo stanchi, quasi sazi di bellezza. Ma il mago ci riprende nelle sue reti. Un suo nuovo scritto ci rinnova, ci libera da ogni ricordo del passato, ci riconduce puri ad un'altra sorgente e si ripete in noi, ormai scaltriti, l'esperienza nuova. E il nostro gusto si raffina, i nostri nervi pare si assottiglino per cogliere anche le minime vibrazioni. Sentiamo che anche da soli, senza il maestro, possiamo accostarci all'opera d'arte con più freschezza, con più sincerità. Quanti veli sono caduti, quanti idoli infranti, quanti valori rovesciati. Verità che prima non eravamo riusciti a comprendere, ora senza accorgercene ci salgono spontaneamente alle labbra. Ricordiamo l'insegnamento di Leonardo ai suoi discepoli: «che osservassero anche le macchie e le muffe dei muri perché in esse potevano essere accordi di colori e di luci più perfette di quelle che l'uomo stesso può creare»[4], e ci pare dica cose che prima non sentivamo. Cessa la nostra adorazione per le opere macchinose, architettonicamente complesse, e badiamo più ai legami di suono che ci sono tra parola e parola, tra periodo e periodo. L'esclamazione di un carrettiere riveste talvolta per noi tanta poesia quanto un verso di Dante. Non cadiamo nell'esagerazione ridicola di affermare che quel carrettiere è tanto poeta quanto Dante, ma siamo contenti nel sentir in noi la possibilità di sentire la bellezza ovunque essa sia, nel sentirci liberati dai vieti pregiudizi scolastici che ci facevano misurare la poesia a metri cubi e a chilogrammi di carta stampata.
Ma ora non possiamo aspettarci più nulla da Renato Serra. La guerra l'ha maciullato, la guerra della quale egli aveva scritto con parole cosi pure, con concetti cosi ricchi di visioni nuove e di sensazioni nuove[5]. Una nuova umanità vibrava in lui; era l'uomo nuovo dei nostri tempi, che tanto ancora avrebbe potuto dirci ed insegnarci. Ma la sua luce s'è spenta e noi non vediamo ancora chi per noi potrà sostituirla.
[1] L'aneddoto autobiografico sarà rievocato da Gramsci nella lettera alla cognata Tatiana del 2 gennaio 1928 (L, 165).
[2] Lo scrittore e critico Renato Serra era morto in combattimento il 20 luglio 1915 sul Podgora.
[3] Per una ripresa di questo tema, cfr. Q, II, 1384.
[4] Cfr. Arturo Farinelli, Sentimento e concetto della natura in Leonardo da Vinci, in Miscellanea di studi critici in onore di Arturo Graf, Istituto italiano di arti grafiche, Bergamo 1903, p. 341 (probabile fonte di Gramsci).
[5] Evidente allusione al testamento spirituale di Serra, Esame di coscienza di un letterato, apparso nella «Voce» il 30 aprile 1915 ed edito in volume (Treves, Milano 1915) pochi mesi dopo a cura di G. De Robertis e L. Ambrosini.