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La Storia

in «Avanti!», anno XX, n. 240, 29 agosto 1916, cronache torinesi, nella rubrica «Sotto la mole». Raccolto in SM, pp. 230-231; CT, pp. 513-514.

Date pure alla vita tutta la vostra attività, tutta la vostra fede, tutto l'abbandono sincero e disinteressato delle vostre migliori energie. Immergetevi pure, creature vive, sul vivo e palpitante divenire umano, fino a sentirvi tutt'uno con esso, fino a riceverlo tutto in voi stessi, e a sentire la vostra personalità atomo di un corpo, vibrante particella di un tutto, corda sonora che riceve e riecheggia tutte le sinfonie della storia che voi sentite cosi di contribuire a creare. Nonostante questo abbandono completo alla realtà ambiente, nonostante questo collegare il vostro individuo al gioco complicato delle cause ed effetti universali, sentite all'improvviso il senso di qualcosa che vi manca, sentite dei bisogni vaghi, e difficilmente determinabili, quei bisogni che Schopenhauer chiamava metafisici[1].
Siete nel mondo, ma non sapete perché. Operate, ma non sapete perché. Sentite dei vuoti, e desiderereste delle giustificazioni al vostro essere, al vostro operare, e vi pare che le ragioni umane non vi bastino, che risalendo di causa in causa arriviate ad un punto che, per coordinare e regolare il movimento, ha bisogno di una ragione suprema, fuori del conosciuto e del conoscibile per essere spiegata. Proprio come uno che guardando il cielo e risalendo di piano in piano nello spazio che la scienza ha misurato, sente sempre maggiori difficoltà al suo fantastico vagabondare nell'infinito, e arriva al vuoto e non può concepire questo vuoto assoluto, e allora inconsciamente lo popola di creature divine, di entità soprannaturali che coordinano il movimento vertiginoso e pur logico dell'universo. Il sentimento religioso è tutto materiato di queste aspirazioni vaghe, di questi istintivi ed interiori ragionamenti senza sbocco. E a tutti ne rimane nel sangue qualche traccia, qualche fremito, anche a chi più fortemente è riuscito a dominare queste manifestazioni inferiori, perché istintive, perché impulsive, del proprio io.
Ma è la vita stessa che le vince, è l'attività storica che le cancella. Prodotti della tradizione, depositi istintivi di millenarie epoche di terrore e di ignoranza della realtà circostante, si cerca di rintracciare la loro origine. Spiegarle vuol dire superarle. Farne oggetto di storia vuol dire riconoscere la loro vacuità. E allora si ritorna alla vita attiva, si sente più plasticamente la realtà della storia. Riconducendo ad essa non solo il fatto ma anche il sentimento, si finisce col riconoscere che solo in essa è la spiegazione della nostra esistenza. Tutto ciò che è storificabile non può essere soprannaturale, non può essere il residuo di una rivelazione divina. Se qualcosa è ancora inesplicabile, ciò è dovuto solamente alla nostra incompletezza conoscitiva, all'ancora non raggiunta perfezione intellettuale. E ciò può renderci più umili, più modesti, non già buttarci in braccio alla religione. La nostra religione ritorna ad essere la storia, la nostra fede ritorna ad essere l'uomo e la sua volontà e attività. Sentiamo questa spinta enorme, irresistibile che ci viene dal passato, la sentiamo nel bene che ci apporta, dandoci l'energica sicurezza che ciò che è stato possibile lo sarà ancora, e con maggiori probabilità in quanto noi ci siamo scaltriti per l'esperienza altrui. E la sentiamo nel male, in questi residui inorganici di stati d'animo superati. E cosi è che ci sentiamo inevitabilmente in antitesi col cattolicismo e ci diciamo moderni. Perché il passato noi lo sentiamo bensì vivificare la nostra lotta, ma domato, servo e non padrone, illuminatore e non aduggiatore.

 
***

 
[1] Gramsci si riferiva al seguente passo di Schopenhauer: «Il suo [della filosofia] scopo è l'appagamento di quel nobile bisogno, da me chiamato metafisico, che l'umanità ha sentito, profondo e vivo, in tutti i tempi, e più forte quando, come ora, il rispetto per i dogmi va diminuendo». Cfr. Arturo Schopenhauer, La filosofia delle università, trad. con introduzione di G. Papini e un'appendice di G. Vailati, Carabba, Lanciano 1912 («Cultura dell'anima»), p. 28.

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