Una verità che sembra un paradosso
In «Avanti!», anno XXI, n. 93, 3 aprile 1917, cronache torinesi, nella rubrica «Caratteri italiani». Raccolto in SG, 100-102, CF, pp. 109-111.
L'attività scientifica è materiata per grandissima parte di sforzo fantastico; chi è incapace di costruire ipotesi non sarà mai scienziato. Anche nell'attività politica ha grandissima parte la fantasia; ma nell'attività politica l'ipotesi non è di fatti inerti, di materia sorda alla vita; la fantasia in politica ha per elementi gli uomini, la società degli uomini, i dolori, gli affetti, le necessità di vita degli uomini. Se uno scienziato sbaglia nella sua ipotesi, poco male, in fondo: si perde una certa quantità di ricchezze di cose: una soluzione è precipitata, un pallone è scoppiato. Se l'uomo politico sbaglia nella sua ipotesi, è la vita degli uomini che corre pericolo, è la fame, è la rivolta, è la rivoluzione per non morire di fame. Nella vita politica l'attività fantastica deve essere illuminata da una forza morale: la simpatia umana; ed è aduggiata dal dilettantismo, cosi come fra gli scienziati. Dilettantismo che è in questo caso mancanza di profondità spirituale, mancanza di sentimento, mancanza di simpatia umana. Perché si provveda adeguatamente ai bisogni degli uomini di una città, di una regione, di una nazione, è necessario sentire questi bisogni; è necessario potersi rappresentare concretamente nella fantasia questi uomini in quanto vivono, in quanto operano quotidianamente, rappresentarsi le loro sofferenze, i loro dolori, le tristezze della vita che sono costretti a vivere. Se non si possiede questa forza di drammatizzazione della vita, non si possono intuire i provvedimenti generali e particolari che armonizzino le necessità della vita con le disponibilità dello Stato. Si scaglia un'azione nella vita: bisogna saper prevedere la reazione che essa sveglierà, i contraccolpi che essa avrà. Un uomo politico è grande in misura della sua forza di previsione: un partito politico è forte in misura del numero di uomini di tal forza di cui dispone.
In Italia i partiti di governo non possono disporre di nessuno di tali uomini: nessuno che sia grande, nessuno che sia almeno mediocre. Uno dei caratteri italiani, e forse quello che è più malefico per l'efficienza della vita pubblica del nostro paese, è la mancanza di fantasia drammatica. Sembra una affermazione letterariamente paradossale, e in verità è una osservazione profondamente realistica. Ogni provvedimento è un'anticipazione della realtà, è una previsione implicita. Il provvedimento è tanto più utile quanto più esso aderisce alla realtà. E perché ciò avvenga è necessario che il lavorio preparatorio sia completo, che nel lavorio preparatorio non si sia trascurata alcuna ipotesi, e delle infinite ipotesi possibili si siano scartate quelle che non resistono alla prova della rappresentazione drammatica. Orbene: le autorità italiane, quelle governative, quelle provinciali, quelle cittadine, non hanno finora decretato un provvedimento che non sia stato tardivo, non hanno ponzato un provvedimento che non abbia avuto bisogno di essere modificato, di essere prima o poi cassato, perché, invece di provvedere, veniva a far rincrudire il malessere. Non sono riuscite ad armonizzare la realtà, perché sono state incapaci di armonizzare prima, nel pensiero, gli elementi della realtà stessa. Esse ignorano la realtà, ignorano l'Italia in quanto è costituita di uomini che vivono, lavorando, soffrendo, morendo. Sono dei dilettanti: non hanno alcuna simpatia per gli uomini. Sono retori pieni di sentimentalismo, non uomini che sentono concretamente. Obbligano a soffrire inutilmente nel tempo stesso che sciolgono degli inni alati alla virtù, alla forza di sacrificio del cittadino italiano. La folla è ignorata dagli uomini di governo, dai burocratici provinciali e cittadini. La folla, in quanto è composta di singoli, non in quanto è popolo, idolo delle democrazie. Amano l'idolo, fanno soffrire il singolo individuo. Sono crudeli perché la loro fantasia non immagina il dolore che la crudeltà finisce col suscitare. Non sanno rappresentarsi il dolore degli altri, perciò sono inutilmente crudeli. Hanno lanciato la prima azione, la guerra. Non ne hanno preveduto l'importanza, la profondità degli effetti immediati e lontani. Sapevano che l'Italia non produce quanto basta per il suo sostentamento. Non hanno preveduto che un giorno sarebbe venuto a mancare, oltre al companatico, il pane[1]. Quando se ne sono accorti era troppo tardi; non importa: avrebbero potuto ancora provvedere, avrebbero potuto equamente distribuire la sofferenza. Non hanno sentito la sofferenza: hanno creato il caos, hanno lasciato arraffare ai più forti economicamente, hanno lasciato disperdere il poco che c'era ancora. Hanno imposto che il pane fosse cosi e cosi; appena pubblicato il decreto[2] le vittime si sono accorte che esso era sbagliato: perché non se ne sono accorti i responsabili? Perché non si erano rappresentati nel pensiero queste vittime, perché non hanno sentito che ci sarebbero state delle vittime? Predicano contro i ricchi che buttano via la mollica: non sentono che tutto questo spreco è sofferenza dei poveri; limitano l'orario dell'uso del gas: non si preoccupano del fatto che due ore sole di gas significa non poter preparare il desinare per chi lavora, per chi deve nutrirsi per lavorare e lavorare per nutrirsi, mentre due ore al primo mattino sono troppe, e quindi inutili. [...][3] perché il grano non arriva pur essendoci, perché non si può comprare il cibo avendo biglietti e mancando gli spezzati, perché al tocco si chiudono le panetterie, perché il bambino non vuole deglutire la medicina, che non si può edulcorare per la mancanza dello zucchero[4], mentre i fabbricanti di vermouth continuano a lavorare. Non sanno armonizzare la realtà disagiata con la possibilità di minor disagio per tutti. Non pensano che ove c'è da mangiare per cinquanta, possono vivere cento, se si armonizzano i bisogni: [...][5]
[1] Da alcune settimane era in corso una vivace polemica sulla situazione alimentare nel paese; in particolare era dibattuto il problema della restrizione del consumo, dell'aumento del prezzo del frumento e delle forme del pane.
[2] II decreto, emanato alla fine del febbraio 1917, relativo alle nuove norme per la lavorazione e la vendita del pane.
[3] Quattro righe e un quarto censurate.
[4] Nel marzo 1917 il comune di Torino aveva introdotto il razionamento dello zucchero.
[5] Ventisette righe censurate.