L'orologiaio
Firmato: A. G.; in «Il Grido del Popolo», n. 682, 18 agosto 1917. Raccolto in SG, pp. 125-26, CF, pp. 281-283.
Si parla spesso di un prima e di un poi. Si aspetta una data fissa. Noi crediamo che non esista alcuna data fissa, e crediamo di essere specificatamente noi, solo perché il nostro pensiero coglie sempre nella vita un modo di essere perennemente aderente al nostro pensiero stesso. Tra la solita vita sociale quotidiana e la vita di eccezione delle rivoluzioni non c'è differenza qualitativa, ma differenza quantitativa. Un più o un meno di certi determinati fattori. Le energie sociali attive sono l'apparenza sensibile e umana di certi determinati fattori. Le energie sociali attive sono l'apparenza sensibile e umana di certi determinati programmi, di certe determinate idee; in tempi normali c'è un equilibrio di forze la cui instabilità ha oscillazioni minime; quanto più queste oscillazioni diventano irregolari e capricciose, tanto più si dice che i tempi sono calamitosi; quando l'equilibrio tende irresistibilmente a spostarsi, si ammette che si è entrati in un momento di vita nuova. Ma la novità è quantitativa, non qualitativa.
È avvenuta una escavazione più profonda nella ganga sociale. Ora la ganga si sta metallizzando tutta, e il metallo nuovo ha tutto un timbro, il nostro timbro. Ma questo fenomeno c'è sempre stato, perché noi non siamo diversi da ieri, perché noi continuiamo il nostro ieri. Ci ritroviamo in questo fenomeno; gli altri se ne spaventano. Esso è la nostra realtà, è la nostra concezione, è il nostro capolavoro storico, perché finalmente i due termini, concezione e realtà, aderiscono estesamente, non frammentariamente. La vita del pensiero si sta sostituendo all'inerzia mentale, all'indifferenza: è la prima delle sostituzioni rivoluzionarie. Una nuova abitudine si forma: quella di non temere il fatto nuovo; prima perché peggio di così non può andare, in seguito perché ci si convince che andrà meglio.
È incominciato il processo ideale del regime, è incominciata la sua dichiarazione di fallimento: esso ha perduto la fiducia istintiva e pecorile degli indifferenti, perché ha chiuso troppi sportelli. Ha socchiuso ora un altro sportello: quello della vita, la bocca del forno, la porta del magazzino granario. Lo chiuderà del tutto? La domanda angosciosa si propaga nelle lunghe file di donne che fanno coda alle cinque del mattino dinanzi alle panetterie[1]. Raggiunge tutti, anche i più umili strati della passività sociale; bussa e scuote i pilastri stessi della vita. E la ganga si metallizza; tutti vivono, tutti si nutrono: le sorgenti della vita si disseccano, e la passività si organizza in pensiero per difendersi.
Hanno per tre anni goduto la fiducia di una piccola parte attiva della società: hanno disciplinato esteriormente la immensa passività sociale, gli indifferenti: l'altra parte attiva, che non soffre esteriorità, non ha concesso la sua fiducia, la sua collaborazione. Ora anche l'immensa passività si organizza in pensiero, si disciplina, non secondo schemi esteriori, ma secondo le necessità della sua vita propria, del suo pensiero nascente. Non c'è bisogno dell'accordo dell'armonia prestabilita. Se, come Leibniz, paragoniamo i numeri di questa umanità nascente agli orologi di una bottega da orologiaio, osserviamo lo stesso atto: l'armonia prestabilita, il segnare tutti la stessa ora, il pensare tutti la stessa cosa, l'essere tutti assillati da uno stesso turbamento, non risulta da un accordo, da uno scambio di volontà. Il disagio è l'orologiaio che fa scattare insieme tutte le molle, che imprime un movimento sincrono a tutte le lancette. Il disagio è l'orologiaio che ha creato un'unità sociale nuova, con stimoli nuovi, non esteriori, ma interiori. Un'unità sociale più estesa di quella che ieri esisteva determinata dalla stessa causa. Ieri il disagio era il rapporto di insoddisfacimento tra un dato pensiero politico ed economico, tra un bisogno e una delusione, oggi è lo stesso rapporto, colto da una moltitudine, da una quasi totalità. Ed è la continuazione del nostro ieri, è per noi una continuità, perché la vita è sempre una rivoluzione, una sostituzione di valori, di persone, di categorie, di classi. Gli uomini però danno il nome di rivoluzione alla grande rivoluzione, a quella cui partecipa il massimo numero di individui, che sposta un numero maggiore di rapporti, che distrugge tutto un equilibrio per sostituirlo con un altro intero, organico. Noi ci distinguiamo dagli altri uomini perché concepiamo la vita come sempre rivoluzionaria, e pertanto domani non dichiareremo definitivo un nostro mondo realizzato, ma lasceremo sempre aperta la via verso il meglio; verso armonie superiori. Non saremo mai conservatori, neanche in regime di socialismo, ma vogliamo che l'orologiaio delle rivoluzioni non sia un fatto meccanico come il disagio, ma sia l'audacia del pensiero che crea miti sociali sempre più alti e luminosi.
[1] Dai primi di agosto la situazione alimentare a Torino era andata sempre più aggravandosi, fino a provocare incidenti che di lì a poco sarebbero sfociati in un grande sciopero spontaneo e in una sollevazione di massa contro la guerra (i cosiddetti «fatti di Torino» del 22-26 agosto 1917).